Giuseppe Nibali
Q.B. PRIMO PIANO
Nota di lettura su Scurau
Giuseppe Nibali (Arcipelago Itaca, 2021)
Il libro Scurau è suddiviso in tre sezioni: Antropocene, Predazione e Scurau, quest’ultima scritta in siciliano, con annesse traduzioni in italiano, che dà il titolo all’intero libro. La postfazione è a cura di Tommaso Di Dio. Le illustrazioni sono di Ilaria Mai.
Il titolo, così insolito, necessita di una spiegazione: in siciliano il verbo impersonale “scurau”, terza persona singolare del passato remoto, può venire reso in italiano come “abbiamo finito”, “viene buio”, “fa notte”, “è tardi”; anche se sotto sotto, come ogni espressione idiomatica, rimane intraducibile. E evidenzia immediatamente la forza evocatrice di un evento (la tenebra) che si annuncia come remoto ed è già qui, passato e presente nel suo avvicinarsi ed esserci.
Scurau, come ci dice lo stesso Nibali, “nasce dalla volontà di uscire dal canone, di spostarsi su un lato, se non desertico, sicuramente poco battuto. Oltre ai riferimenti culturali, conta molto la biografia. Si scrive, per dirla così, sempre lo stesso verso, lo stesso racconto, la stessa opera, filtrata di volta in volta tramite poetiche differenti. Alla propria biografia, alla propria storia, non è possibile fuggire. Nel mio caso, dunque, la Sicilia, che è la terra dei padri non smette di essere un’ispirazione costante. Ancora di più: si è dei vissuti, non dei viventi. Allo stesso modo funziona il linguaggio, noi siamo parlati più che parlanti. Diciamo che la mia poesia cerca di mettere a tema il mondo contemporaneo, la sua storia, i suoi vizi di forma, le sue strutture. Ma credo che, in un certo modo, la poesia di ogni tempo (quando non è puro esercizio di stile) abbia cercato di mettere in versi il proprio contemporaneo, basti pensare alla poesia europea di guerra, o a quella borghese subito successiva.”
Scurau, u senti stu scuru ca ni pigghia? Statti ccà. Resta,
è longa a nuttata, e non chianciri, basta. I casi ‘i spunnaru.
‘I spunnau n’ventu chinu e’ jorna. Trasi e talìa a me vesti,
a morsi a morsi ppi ttia, ppi quannu nascisti e ppi to patri
ca u chiamai tutt’u tempu e non m’arrispunniu ancora.
Veni cà, non chianciri. Intra’a chiesa parravanu ro nfernu,
u parrinu s’infucau e avìa l’occh’i fora; ppi lu scantu
t’incaccau l’ogghiu supr’a testa. Sulucà, pri thri ghiorna,
lucìu a festa.
Ha fatto buio, la senti questa oscurità che ci prende? Rimani qui.
Resta/ la notte è lunga, e non piangere, basta. Hanno sfondato le
case./ Le ha sfondate un vento pieno di giorni. Entra e guarda la
mia veste, fatta a brani per te, quando sei nato e per tuo padre/
che ho chiamato tutto il tempo e non ha risposto ancora.// Vieni
qua, non piangere. Dentro la chiesa parlavano dell’inferno, il
prete si è infuocato e aveva gli occhi di fuori; per lo spavento/ ti
ha premuto l’olio sulla testa. Solo qui, per tre giorni,/ si è
illuminata la festa.
La scrittura di Giuseppe Nibali sa mostrare la parte più oscura del nostro vivere contemporaneo, mantenendosi sempre al di fuori della cronaca, senza alcun referente esplicito più o meno mediatico.
Il linguaggio usato, come è stato definito, così ‘congestionato’, ci immette in una zona infera, crepuscolare, che ci è terribilmente prossima e familiare. La riconosciamo dalla ferocia che ogni verso trasuda, dalla ossessione per i resti, siano essi feticci, schegge di mitologia, di storia, di scienza. Una lingua di continuo passaggio tra queste dimensioni.
Pure il futuro più o meno vicino viene condizionato da questo viversi nell’oscuro: come nella poesia che descrive una coppia che guarda la televisione dal divano e che viene coinvolta da un inverosimile crollo del globo giù dall’atmosfera. I loro resti mummificati vengono poi esposti per essere guardati dalle creature future con lo stesso atteggiamento e con la stessa distanza con cui noi guardiamo “gli amanti” di Pompei. È una poesia che ci costringe a riconsiderarci come possibile materia di studio futuro così come noi consideriamo il passato. Considerare la nostra vita come futuri fossili e gli oggetti della nostra quotidianità esposti in una bacheca con magari dei foglietti esplicativi e la data presunta sa turbare fortemente.
Fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare:
un figlio chiede al padre dell’auto crollata nel vallone.
Si dovrebbero lasciare, mentre insieme guardano la televisione
dal divano. Lei lunga distesa, il suo collo e ciò che precipita
insieme a noi e alla Terra e si fa freddo mistero.
In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno
come fossero statue di rettile nel diorama. Diranno si amavano,
guarda, lei ancora tiene la testa poggiata sulla spalla.
Non hanno sentito nulla dal globo durante il lungo crollo
(mesi, anni), è stato come spegnere tutto, un velo, un tuono.
Entrarci ancora vivi, dentro il nero.
Nibali posiziona le sue poesie, come si dovrebbe sempre fare, a lato della storia immediata per guardarla attentamente e freddamente. Non si può negare che portino un valore talmente universale da potersi applicare anche a questi nostri concitati giorni:
Cà cumannunu e patrunianu i puci. N’autru ‘nvernu, dici,
n’autru ‘nvernu e putemu sbarattari.
Ci si stringi u cori. N’figghiu u ‘mmazzaru sparànnucci,
n’autru u bastunaru nta calata nivura ro sgricciu. Ora
quarcunu vucìa, ‘ccumincia a vanniari. Quantu è largu
stu pettu? Quantu dura stu nostru tempu? U chiantu
ni padrunìa, u scantu su dicemu: Cà cristiani ci simmu.
Qua comandano e governano le pulci. Un altro inverno, dice,/ un
altro inverno e possiamo chiudere. Si commuovono. Un figlio lo
hanno ammazzato sparandogli,/ un altro l’hanno bastonato sulla
scivola nera della fontana. Ora/ qualcuno sussurra, comincia a
gridare. Quanto è largo/ questo petto? Quanto dura questo nostro
tempo? Il pianto/ ci governa, lo spavento se diciamo: Queste sono
persone.
Tommaso Di Dio, nella postfazione dice che è un libro che parla di noi tutti, nessuno escluso. Raramente, scrive, ho letto un linguaggio più immerso nella contemporaneità: ed è orribile. È l’orrore». Ricorda la frase finale del film Apocalypse Now, che a sua volta richiama la trama di Cuore di Tenebra di Conrad con le parole di Kurz pronunciate prima di morire: «L’Orrore! L’Orrore!», mantra e tormento del secolo scorso che rischia di estendersi anche a questo secolo.
Nibali coglie questo viversi come l’“ultima generazione sulla Terra” prima della catastrofe o addirittura già dentro la catastrofe senza mezzi termini o compromessi.
È un libro che non si riferisce né si può collegare solamente alla generazione degli anni novanta, piuttosto è un’osservazione lucidissima di chi ha già costruito e ci ha lasciato in mano tutto questo, “spavento” – per citare l’ultima poesia della silloge dove viene raccontato di come si deve scannare un coniglio, e di come tra le mani, alla fine, oltre alla carcassa rimane lo spavento. Quindi anche un libro per le generazioni che verranno. Non un libro risolutorio, ma descrittivo. Dove sappiamo perfettamente quello che siamo, inorridendo, e che non vogliamo essere.
Pi scannari n’cunigghiu, prima cosa
cauru cauru l’ha pigghiari r’intra a cunigghiera,
vacci a manu raputa, china china, come preiannu
scatta u cunigghiu masculu, chiddu chiù rossu, ha tastari
boni i spaddi, poi ci pappi a tringa pi viriri su è rassu.
Nisciutu ra cunigghiera ha trasiri intra a cucina, cà ha teniri
bonu l’armaluzzu e iddu s’abbessa,’ncravacca i iammitti.
A cuzzata c’arrivari sutta i ricchi, accussì s’alluppia, duna
l’arma a diu. No mentri na putenti cutiddata nto sternu,
d’unni cola u sangu, annunca a carni s’annirichisci.
P’a pelli, tagghia pattennu rei cosci e u tagghiu arriva
fino ai cannarozza, ri cà ietta buredda e stommacu, poi
votulu e tagghia sutta a cura. Ora posa u cuteddu, teni
i lati e duci strascina da cosetta i sita. T’arresta
ntei manu u scantu, n’aranata senza scoccia.
Per scannare un coniglio, per prima cosa/ devi prenderlo da
dentro la conigliera/ vacci a mano aperta, bene aperta, come
pregando/ scegli il coniglio maschio, quello più grosso, devi
tastare/ bene le spalle, poi palpeggia la schiena per vedere se è
grasso./ Uscito dalla conigliera devi entrare in cucina, qui tieni/
bene l’animaletto e lui si sistema, stende le zampe./ il colpo deve
arrivare sotto le orecchie, così si tramortisce,/ dà l’anima a dio.
Nel frattempo una forte coltellata nello sterno,/ da dove colerà il
sangue, altrimenti la carne s’annerisce.// Per la pelle, taglia
partendo dalle cosce e il taglio deve arrivare/ alla gola, da qui
butta budella e stomaco, poi/ giralo e taglia sotto la coda. Ora
posa il coltello, tieni/ i lati e dolcemente sfila quella calza di seta.
Ti rimane/ nelle mani lo spavento, una melagrana senza scorza.
Giuseppe Nibali legge da Scurau (Arcipelago Itaca, 2021)
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