Ilaria Boffa
Ilaria Boffa
- Mi piacerebbe iniziare l’intervista con un ricordo. Com’è stato il tuo primo incontro con la poesia?
Leggere poesie è qualcosa che mi ha accompagnato fin da quando ero ragazzina ma ho iniziato a scrivere tardi. Non pensavo che questa espressione si avvicinasse al mio modo di essere. Da ragazzina sognavo di diventare giornalista, un’inviata speciale tipo Oriana Fallaci, una persona che ho seguito molto negli anni, leggendo i suoi libri e le sue interviste. Invece, verso la fine dei miei trent’anni, a seguito di una serie di eventi particolari ho iniziato inaspettatamente a scrivere in forma poetica e in inglese.
- Hai iniziato a scrivere in lingua. A Tredozio parlerai del progetto Writing in a different language promosso dal NEMLA (Northeast Modern Language Association) a cui hai partecipato insieme a Monica Guerra e Sandro Pecchiari. Ce ne vuoi parlare?
Il progetto nasce da una collaborazione che già esisteva con Samuele Editore. Quest’anno l’obiettivo era quello di portare in America un esempio di come alcuni autori, nel loro paese scrivano in una lingua diversa da quella di origine. Io scrivo in inglese in un contesto italiano e ogni autore inserito nella pubblicazione ha portato la sua esperienza. Abbiamo partecipato ad una convention negli Stati Uniti in cui sono state trattate tematiche relative al superamento delle barriere, anche linguistiche e abbiamo letto i nostri testi e spiegato il perché della nostra scrittura.
- Tu scrivi in inglese e i testi poi vengono tradotti nella tua lingua. È interessante notare che il processo non è di sola traduzione ma anche di riscrittura.
Esattamente. L’autotraduzione è un momento complesso che però da un lato ha il vantaggio che quando si fa una riscrittura non fedele si è comunque fedeli perché si sceglie di conservare il significato ma si modifica la struttura. Alla fine è quasi come scrivere due testi, c’è corrispondenza ma la struttura è diversa. E’ un doppio lavoro ma molto utile perché l’autotraduzione è un processo di rielaborazione che influenza la scrittura di origine, un continuo rimbalzo. È utile per arrivare al cuore di ciò che si vuole esprimere. Con questo doppio lavoro vengono analizzate le parole, il perché vengono usate, una crescita continua insomma.
- A proposito di suono. In rete si trovano tuoi lavori che raccontano esperienze sonore. Ce ne vuoi parlare?
È un’esperienza recente. Il field recording -la registrazione dei suoni ambientali – suoni della natura, suoni urbani. Vengono creati dischi in questo filone. Praticamente accompagno alla mia lettura delle registrazioni rielaborate a pc per togliere rumori di fondo, ecc. e in questi ultimi due anni sono nate collaborazioni con vari musicisti della scena underground/avant-garde. Ho iniziato grazie a un duo italiano e successivamente con musicisti internazionali che operano prevalentemente nella musica ambient, elettronica, acousmatic music, ecc. e ne sono nati componimenti poetici che ho chiamato “songpoem”.
- Chiudo chiedendoti qualcosa a proposito dei tuoi progetti futuri.
Uscirà un libro nuovo che si inserisce nel filone detto di eco-poetry eche si pone come obiettivo di sollevare domande e dubbi a proposito di questioni ambientali, ecologiche senza voler fare la morale, piuttosto utilizzando l’osservazione della realtà per interrogarsi. Accanto a questo aspetto si affianca l’attività di field recording che non era presente in Periferie. Nella nuova raccolta bilingue infatti c’è molta natura letta attraverso i suoni dell’ambiente.
“About Sounds About Us/Di Suoni e di Noi” è nato in inglese e auto tradotto con l’editing di Alison Grimaldi Donahue (autrice e traduttrice) e prefazione di Patrick Williamson (poeta e traduttore).