Claudia di Palma
Q.B. PRIMO PIANO
Nota di lettura su Atti di nascita
Claudia di Palma, Minerva, 2021
La nuova pubblicazione di Claudia Di Palma è un inno allo sguardo, inteso come il dispositivo generativo dell’essere. La raccolta poetica ruota attorno al senso della vista.
Il nucleo attorno a cui si strutturano i versi di Di Palma è l’identificazione tra il guardare e il donare (“ti perdo ogni volta che ti vedo”). Allo stesso tempo, per l’autrice, la vista è il luogo dell’esistenza. Senza vista non è possibile alcuna esistenza. Vedere è esistere. Non solo, la visione (la coscienza) produce esistenza. Guardare è far esistere. Per dirla nei termini dell’autrice, guardare è un “atto di nascita”. Non tanto nel senso che prima dello sguardo non esiste nulla (anche se ogni creazione è un atto visivo (“Dio creò il mondo e vide che era cosa buona”, Genesi) ma piuttosto che dopo lo sguardo viene ad esistere qualcosa di diverso, qualcosa di trasformato. Il preesistente, oggettivo in quanto non guardato dalla coscienza, si trasforma, sotto lo sguardo del soggetto, in soggettivo. Sarebbe quindi meglio dire che il guardare è una trasformazione. Non è poi forse ogni nascita una trasformazione?
L’impossibilità di esistere in assenza dello sguardo (“Non posso/ sono ciò che vedo, il volto dove mi incastro/ Devo tenere gli occhi aperti per essere”) ha chiari rimandi alla fisica quantistica e alla psicologia analitica. Per la psicologia del profondo, i cui legami con la fisica quantistica sono stati per primi esplorati da C.G. Jung e dal fisico W. Pauli, ogni osservazione, quindi anche ogni teoria, è possibile soltanto in relazione all’osservatore e all’osservato. Un’osservazione neutrale semplicemente non può essere. Non esiste in fisica quantistica e nella psicologia analitica un qualche tipo di fenomeno puramente oggettivo.
In queste due discipline, tanto complesse quanto profonde, il luogo dell’unicità è l’osservazione, così come per Di Palma la visione è il luogo dell’esistenza. L’osservazione, quindi l’esistenza, è un atto di nascita unico, in quanto è semplicemente impossibile tagliare fuori l’influenza del soggetto-osservatore attraverso previsioni certe e correzioni determinabili a priori. L’osservatore rientra nel campo che lui stesso vuole guardare, finendo perciò per modificarlo.
Tutto è mediato dallo sguardo, quindi soggettivo in nuce. Non si può uscire dalla psiche, in quanto essa è il presupposto dell’esistenza. Vedere è dare forma, è formare.
Tutto ciò è centrale nella poetica di Claudia Di Palma, quasi che non potesse esistere una poesia, non solo senza la parola, ma anche senza la vista. Anzi, forse ancor più che dalla parola, la poesia nasce dagli occhi. Il luogo del soggetto, della verità, potremmo dire, non è la parola, che anzi è un “chiodo” che fissa brutalmente al legno brandelli di realtà, ma è la visione. Esiste uno scarto residuo tra la lingua e la vista, tra il nome e ciò che viene nominato, tra la parola e l’essenza (“ogni nome ti nomina invano”).
Nei versi di Di Palma, sembra annidarsi il superamento, o forse solo l’allontanamento, di un certo modo di intendere la poesia per cui soltanto nella parola può esserci la verità. Se la parola cede il posto all’immagine, la propria essenza non sarà più da ricercare autisticamente nel linguaggio alfabetico. Piuttosto andrà cercata nel simbolo, nel linguaggio simbolico che, per Di Palma, è chiaramente quello cristiano. Il proprio nome allora non sarà più letto, ma visto (“E la mia preghiera era guardare, / provare a vestirmi sul nulla, / …decifrare il mio nome”). Per usare un termine di matrice cristiana, molto vicina alla sensibilità dell’autrice, il Verbo nel XXI secolo è diventato (o ritornato?) Immagine. Il Dio intimistico s’è trasformato in un Dio impersonale, come solo la Natura spogliata dei Numi può esserlo.
Nella società contemporanea, Dio non è più vero dell’Epifania. Il fulmine oggi non è più scagliato da nessun Dio, buono o malvagio che sia. Non c’è più nessuno a tendere la mano dal cielo. Oltre il fulmine, oltre il virus che intimorisce l’uomo, oltre la natura, oltre la superficie visibile, non c’è niente e nessuno. Nell’immaginario attuale, è soltanto il Caso, elevato, questo sì, a unico stendardo di verità, a decretare il destino degli uomini.
Claudia Di Palma intercetta tutto questo, la trasformazione dei rituali collettivi, la crisi della spiritualità, il mondo ridotto ad un supermercato, dove la merce è già da sempre così, nasce sugli scaffali in attesa di essere vista e consumata. La voce proveniente dall’alto, dagli altoparlanti del mondo-supermercato non ha più nessuna autorità. Nessuno la ascolta più. Tanto, o non è rivolta a noi o non esprime niente di utile, di consumabile. Inoltre, c’è il dubbio che la voce degli altoparlanti sia soltanto una voce registrata, quindi non vera. L’autrice contrappone quindi i rituali a bassa intensità, tipici del consumismo inautentico (“consegniamo la nostra offerta, / andiamo via. / …e ci sentiamo ripuliti, smacchiati, / come appena nati”), al “rituale dello straniamento” che è quella forma di amore che conduce alla conoscenza, al mettersi in contatto con ciò che diverge, con l’Altrove.
Il “rituale dello straniamento” è anche la poesia, come forma di conoscenza che ci estrania da noi stessi, che ci pone fuori da noi stessi. La poesia, si dice, o estrania e ci mette in contatto con l’Altrove o non è poesia. Chi vuole conoscere, dice Di Palma nella breve introduzione, è sempre straniero. Ogni conoscenza, ogni nascita si poggia necessariamente su uno “smantellamento”. Oggi, però, come denuncia Di Palma nei suoi versi, abbiamo forse perso il “coraggio di guardare negli occhi” l’Altrove, come luogo dell’Io e insieme dell’Altro, e quindi difficilmente può esistere un’autentica conoscenza (“Corpo a corpo facciamo il rituale/ e non ci conosciamo mai/ e non c’è niente da conoscere. / È il rituale dello straniamento”).
In una società innamorata dello sguardo e che ne fa quasi un idolo, un fine in sé, la proposta di Claudia Di Palma sembra essere quella di mantenere lo sguardo come strumento di verità, con la consapevolezza però che ciò che si osserva è temporaneo perché dinamico, perché “il suo scopo è contraddirsi”.
Se il guardare è quindi centrale nella poesia di Di Palma, lo è anche per la nostra società sempre più immersa tra le fronde della nuova tecnologia digitale, in cui proprio lo sguardo e l’azione della vista in generale sono centrali. La differenza tra lo sguardo che intende Di Palma e quello delle tecnologie visive è l’orientamento, il verso della loro azione. Si potrebbe dire che lo sguardo che cade all’interno dello smartphone è “mal diretto” come il peccato dell’accidia nel Purgatorio dantesco (Purgatorio, canto XVII), e “mal intenzionato” allo stesso modo con cui Dante intende il peccato della lussuria, cioè come un cattivo uso degli occhi (Purgatorio, canto XXV).
Questi due tipi di sguardi sono a loro modo entrambi diretti verso la luce, ma la luce di Di Palma è quella dell’Altrove, del sepolto, dell’indifferenziato che brama di differenziarsi. La luce delle nuove tecnologie visive, invece, è più simile a quella che illumina le corsie del supermercato, in cui “consumatori o consumati/ non fa differenza”.
Avverto una stretta intimità tra la poetica di Di Palma e la seguente terzina dantesca: “Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne, / e l’occhio vostro pur a terra mira” (Purgatorio, canto XIV, vv. 148-50).
Il soggetto è quindi rapito dalla luce del supermercato allo stesso modo con cui la mosca viene attirata dalla luce blu elettrica, ignara della scossa mortale. Il consumatore-consumato ripete “sempre lo stesso giro/ come una mosca”. Chiaro il rimando a molta della letteratura novecentesca sull’uomo trasfigurato ad insetto. Su questo giro del consumatore, consumato fino a svolazzare come una mosca, si costruisce la nuova economia del dato, dell’informazione che riduce l’individuo ad un trend.
In un’era che fa del ritorno all’oralità la sua missione, può il dito che tocca e scorre lo smartphone essere come il chiodo-parola? Si scorge infatti nei versi dell’autrice un audace tentativo di ricondurre la tecnologia consumistica all’interno di un regno naturale (“Chiedo aiuto al cassiere, / al rumore che fanno i codici a barre / quando scorrono come un fiume / e finiscono nelle buste”). Un tentativo quantomeno di rivolgere il proprio sguardo verso altri Beni, distogliendoli da quell’”altro ben che non fa l’uom felice” (Purgatorio, canto XVII, v. 133). Tuttavia, questo rimane nei versi quanto nella realtà sociale un timido abbozzo non ancora schiuso.
Esiste, ad ogni modo, per l’autrice, una via di fuga che coincide con una via di nascita. Rivolgere lo sguardo non più soltanto verso l’Alto, verso gli altoparlanti, ma indirizzarlo più orizzontalmente e obliquamente verso l’Altro, o meglio verso l’Altrove, luogo che nella poesia di Claudia Di Palma è popolato di luce ed insieme è immondo.
L’Altrove che intende Di Palma è il “bidone dell’indifferenza” dove si raccolgono gli oggetti e le persone che “perdono la loro identità”. Di Palma definisce questo luogo come immondo di luce perché in pochissimi lo guardano, quasi che, appunto, fosse qualcosa di sporco, di disgustoso. L’Altrove, però, non è là, ma è già “qui, ai margini del cielo, sull’asfalto bollente”. L’Altrove è quel posto che non si vede ma in cui si vede e ci si vede chiaramente. Se non altro, l’Altrove è necessario per definire un Qui, anche se nella poesia di Di Palma ogni rigida distinzione tra luoghi, tra un qui e un lì, appare fuorviante, mendace, illusoria. Non solo, la luce dell’Altrove è immonda anche perché è raggiungibile solo attraverso il dolore, la perdita, il donare lo sguardo e la carne, attraverso un “taglio”.
La nascita stessa, precisa l’autrice nella breve introduzione, è una perdita, “un massacro di luce”, l’abbandono del buio. Ma, quando la luce, o meglio l’illuminazione è tutta fuori e dentro c’è così poca luce, così poca corrente, anche la Luce, anche l’Altrove fanno paura. A differenza della luce del supermercato che rassicura ma ingabbia, la luce dell’Altrove massacra ma libera: rende possibile l’atto di nascita, la perdita-creazione. Una perdita che crea. Una morte che è già, cristianamente e simbolicamente, una resurrezione.