Laura Turci
La bellezza/lasciata nei fossi.
La poesia dialettale di Laura Turci
(ospite della Rassegna 2018 e del Tres Dotes 2019)
Laura Turci sarà senz’altro da ascrivere a quelli che qualcuno ha chiamato “poeti appartati”, autori che non sgomitano per apparire, non affollano blog e social, non elemosinano recensioni. E scrivono poco. Due raccolte dal 2006 ad oggi: Al carvaj (Le crepe), Società Editrice “Il Ponte Vecchio” di Cesena, 2006 (ristampata nel 2012 con l’aggiunta di dieci liriche, 28 in tutto), con una “Presentazione” di Andrea Brigliadori, e Un an (Un anno), nel 2020 per la stessa Casa Editrice, contenente 12 testi, con due “Introduzioni”, la prima di Giuseppe Bellosi, la seconda di Roberto Mercadini. Quaranta poesie in totale[1]. Tanto più preziosi, dunque, i 4 files Audio donati da Laura a questa Associazione, con la lettura dell’autrice delle liriche: A e’ campsânt (Al cimitero) e E’ nos (Il noce), tratte da Al carvaj, Setémbar (Settembre) e Zogn (Giugno) da Un an (qui riportate con la traduzione in italiano).
Ma non si tratta meramente di numeri. Siamo di fronte ad una poesia sapientemente distillata in un lento processo di sedimentazione delle esperienze quotidiane che trova solo alla fine di un percorso di decantazione e rastremazione delle parole, la sua espressione in versi la cui urgenza si è fatta inderogabile. Una poesia di assoluta intensità e densità, travolgente e coinvolgente sul piano emozionale per la profondità dello sguardo che svela, in un dettato scabro ed essenziale, un paesaggio umano desolato – mai disperato –, venato di molte “crepe”, di pensosità e tristezza, segnato dal bisogno, dal desiderio inappagato, dalle assenze, le ferite, i distacchi. Si respira un’atmosfera di immedicabile solitudine, di pena di vivere che invade uomini e cose. Così nella splendida strofa di chiusura di A e’ campsânt: “Sota i pì / una foja sèca, / fêna tlaragna / ad bocchi svùiti, / la créca / int e’ salghè.”: la “foglia secca”, la “fine ragnatela/di bocche vuote”: questa la nostra dolorosa condizione esistenziale, racchiusa in una densa metafora dove l’assenza di nutrimento è detta con vigorosa essenzialità. Siamo noi la “balarêna straca”, una stanchezza che avvolge come nebbia le nostre giornate, impregna aria e terra.
Anche il vivere – o sopravvivere – quotidiano è segnato irrimediabilmente dal vuoto e dal silenzio, dalla mancanza di senso che ci chiude in una prigione di incomunicabilità. Così l’incipit de I dè lòngh (I giorni lunghi), da Al carvaj: “U j è di dè lòngh / duvò a⸝n s’incuntram mai ;/ a⸝s ẓiram da tònd / a⸝s gvardam int i occ / e a⸝n⸝s gem gninta/ o do parôli, / cum’ a stét?,” [Ci sono dei giorni lunghi/ dove non ci incontriamo mai;/ ci giriamo attorno/ ci guardiamo negli occhi/ e non ci diciamo niente/ o due parole,/ come stai?,] dove è angosciante l’ambivalenza presenza/assenza e campeggia il “niente”, termine-chiave nella poetica della Turci.
Versi brevi, articolati in poche strofe spezzate da frequenti enjambements costruiscono un dettato poetico asciutto e lucidissimo, innervato di un solido realismo di materica concretezza – con largo ricorso al correlativo oggettivo – teso a delineare scene di vita quotidiana, piccoli e minimi accadimenti, fenomeni naturali, carichi di valenze simboliche. Il respiro poetico dell’autrice asseconda, di volta in volta, moti dell’anima e uno sguardo mobile – mai ripiegato sul proprio io – che procede per rapidi spostamenti della “messa a fuoco”, in un continuo dialogo “interno/esterno”, un’attenzione verso gli “altri” cui corrisponde una varia modulazione dei suoni che l’utilizzo della lingua dialettale consente di realizzare con efficacia e naturalezza.
Difatti il dialetto adottato dalla poetessa, il meldolese (variante linguistica del romagnolo parlato a Meldola, nel forlivese) vibra di voci ora morbide, di rarefatta musicalità, ora frante ed aspre (specie ove insistono i gruppi consonantici ed i vocaboli tronchi, soprattutto alla fine del verso) – come si avverte dalle letture dell’autrice – traducendo anche nell’habitus fonico il movimento delle immagini e dei pensieri. Il dialetto permette così di esprimere la ricchezza e l’intensità emotiva dell’orizzonte umano e poetico dell’autrice, scandito in toni ora malinconici e pensosi, ora di cruda icasticità. Esemplare l’uso della lingua neodialettale da parte di Laura Turci. L’essenzialità e la pregnanza di ogni vocabolo, ogni espressione, imposta dal dialetto, oltre ad impedire lo scivolamento elegiaco e retorico, si rivela un formidabile strumento conoscitivo, capace di denudare e portare alla luce la realtà del presente, risalendo dai meandri di una profondità psichica popolata di desideri, paure, tristezze ma anche – sottovoce, con pudore – speranze spesso taciute che la poetessa sa far emergere e parlare senza reticenze.
L’occhio vigile dell’autrice fotografa con nitidezza e compassione (nel senso etimologico), le vite degli “altri”: ragazzi, vecchi, bambini e, soprattutto, donne, vite “strozzate”, marchiate dalla solitudine e dal dolore, da una mancata realizzazione umana, assumendo talora i toni della migliore “poesia civile”. È il caso, ad esempio, di Sàbat (Sabato), tratta da Al carvaj, un capolavoro a mio avviso, per i suoi versi struggenti, impastati di dolore e di una malinconica rabbia, appena trattenuta. Riporto l’intero testo:
Sàbat
Quant a végh, e’ sàbat,
al dòni d’una zerta etè
ch’a l’scapa da la paruchira
cun la mesinpiga
e la faza inrusida,
pr’andè a custodì
oman, fiul, vsen, vécc,
e int j occ
la strachèza;
o al furstiri o ch’a l’caména
drì i marìd a testa basa
e a testa basa nanca da par sé,
u’m ciapa dal volti una tenerèzza
e una voja ad pianz ed ad rugiè
par tot al carèzi, al brazèdi, i bis
ch’a n’avan avù o putù dmandè,
par la blèzza lasèda int i fos
cunpagna fiur saibedgh
impasì,
sott e’ sol ch’u s’à carsù
e ch’u s’vléva a testa dretta
e a occ avirt.
Sabato “Quando vedo, il sabato, / le donne di una certa età / che escono dalla parrucchiera / con la messinpiega / e il viso arrossato, / per andare a custodire / uomini, figli, vicini, vecchi, / e negli occhi / la stanchezza; / o le straniere / che camminano dietro ai mariti / a testa bassa / e a testa bassa anche da sole, / mi prende a volte una tenerezza / e una voglia di piangere e di gridare / per tutte le carezze, gli abbracci, i baci / che non abbiamo avuto o potuto chiedere, / per la bellezza lasciata nei fossi / come fiori selvatici / appassiti, / sotto il sole che ci ha cresciute / e che ci voleva a testa alta / e ad occhi aperti.”
Il tema delle “badanti” torna poi anche in Un an, nella toccante Nuvèmbar (Novembre), con accenti di profonda pietas per queste donne raggelate in una sofferenza che Laura descrive con partecipe, commossa precisione: “Par scaldês al bé.. / Mo un’s’bé par scaldês / e gnânca par scurdê, / u s’bé par murì…” [Per scaldarsi bevono. / Ma non si beve per scaldarsi/ e nemmeno per dimenticare, si beve per morire…], chiudendo infine con versi di amarissima verità: “ Intânt, i fiul i cres / luntân, e i fiul di fiul, / e lò al va dri / a la môrta di nost vec, / ch’la pêga, s’la pêga, / tot cagli êtri / ch’u n’s’po dì.” [“Intanto, i figli crescono/ lontano, e i figli dei figli, / e loro seguono/ la morte dei nostri vecchi, / che paga, se paga,/ tutte le altre/ che non si possono dire.”].
Eppure, malgrado la condizione esistenziale di isolamento, di invecchiamento e di morte, un montaliano “varco” è possibile. Una luce vivificante, improvvisa, magari breve ed effimera, ma una “via di fuga” salvifica, esiste, impastata di carne, di parole, di luce, un incontro d’amore che si nutre della sua stessa gioiosa vitalità. Nella bellissima Zogn (Giugno), la poetessa guarda “I burdel, ir di piṣinin, / i s’beṣa saibédgh / da spes i mur infughì.” I baci “selvatici/dietro i muri infuocati”, le “parole vere” rivelano che “…l’anma de’ fugh / la j è int la fiamba, / no int la risida. / E int e’ ṣlêrgh d’un béṣ / sânza sparagn né pérsita /l’è tota luṣ da luṣ.”. L’ultimo verso può riprendere allora il primo, in una circolarità che suggella il miracolo: “La pôrta la s’è ‘vérta.”
Da questa “porta aperta” si può cominciare di nuovo a guardare avanti in direzione di una vita più sapida ed autentica, apprendere dalla natura una lezione di antica saggezza. È infatti dal noce che, pure tra “fridi averti, e bus, / e lègna za sèca” giunge alla poetessa, nella lirica E’ Nos (da Al carvaj), un insegnamento prezioso sul chi e come essere: “T’è da fè quest, / subit / e sampra /cheica la vita / int la tu forma.”. Ricercare, dunque, e assecondare la propria “forma”, esistere nella fedeltà a se stessi. Questo il dono che Laura Turci ci affida, da custodire e coltivare, da trasmettere agli altri. Anche con la poesia. Soprattutto con la poesia.
[1] Una certa attenzione critica non è comunque mancata nei confronti dell’opera della poetessa meldolese: oltre alle “Presentazioni” alle due sillogi degli autorevoli poeti e studiosi citati, si ritrovano in Rete note, articoli e scelte di testi. Segnalo gli interventi di Francesco Tomada (ne La Dimora del Tempo Sospeso, settembre 2013), Manuel Cohen (in Versante Ripido, marzo 2015) Lucia Guidorizzi (in CarteSensibili, gennaio 2019), oltre alla presenza di alcuni testi in raccolte collettive e nell’Antologia L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila, a cura di M. Cohen, V. Cuccaroni, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, Camerano, Gwynplaine Edizioni, 2014, pp. 397-399. Poco, tuttavia, in rapporto alla forza espressiva, alla verità umana delle liriche di Laura. Dispiace dover constatare che la poesia, dunque, non cammina – come sarebbe augurabile – “con le proprie gambe”, non qui da noi, almeno. Mi auguro che questo scritto possa contribuire a far conoscere ulteriormente l’opera di un’autrice che merita, a mio avviso, ben altra attenzione di quella sinora ricevuta.
A e’ campsânt
A e’ campsânt
l’è pin ad vec:
no murt,
viv.
I-s smesa cun la grèzia
d’ una balarêna straca,
i dà la porbia a i fiur,
i scor cun cuì ch’ i pasa.
Mè, a-n n’ ò l’sir;
int i vidar dal capëli
a guèrd la mi faza
e a m’ cmand
se i mi murt i m’ véd,
un pinsir alzir
int un’ èria basa.
Sota i pì
una foja sèca,
fêna tlaragna
ad bocchi svùiti,
la créca
int e’ salghè.
Al cimitero
Il cimitero
è pieno di vecchi:
non morti,
vivi.
Si muovono con la grazia
di una ballerina stanca,
spolverano i fiori,
parlano con chi passa.
Io, non ho tempo.
Sui vetri delle cappelle
guardo la mia faccia
e mi domando
se i miei morti mi vedono,
e se mi devi tagliare i capelli,
un pensiero leggero
in un’ aria bassa.
Sotto i piedi
una foglia secca,
fine ragnatela
di bocche vuote,
scricchiola
sul selciato.
E’ Nos
L’è stè e’ nos
a ciamèm.
E’ tronch zirè
cum’ un oman
ch’ u s’ guèrda indrì.
I râm avirt
cumpagna brazi
un mument prêma
ad strenzar.
E foj, foj,
cum’ i cavéll int la tësta
d’ un zovan,
cum’ un fugh ch’ u s-ciopa
int e’ zil.
E fridi averti, e bus,
e lègna za sèca.
L’ à det:
“T’ é da fè quest,
sobit
e sampra
cheica la vita
int la tu forma.”.
Il noce
È stato il noce
a chiamarmi.
Il tronco girato
come un uomo
che si guarda indietro.
I rami aperti
come braccia
un attimo prima
di stringere.
E foglie, foglie,
come i capelli sulla testa
di un giovane,
come un fuoco che esplode
nel cielo.
E ferite aperte, e buchi,
e legna già secca.
Ha detto:
“Devi far questo,
subito
e sempre
spingi la vita
nella tua forma”.
Zogn
La pôrta la s’ è ‘vérta.
Al zrisi al dà
e’ sangh a l’ istêda,
al zghèli la vósa.
I burdel, ir di pisinin,
i s’ besa saibédgh
da spes i muri infughì.
I s’ dis dal parôli véri
cumpagna di righél sóra l’ altêr.
I sa che l’ anma de’ fugh
la j è int la fiamba,
no int la risida.
E int e’ slêrgh d’ un bés
Sânza sparagna nè pérsita
l’ è tota lus da lus.
La pôrta la s’è ‘vérta.
Giugno
La porta si è aperta.
Le ciliegie danno
il sangue all’ estate,
le cicale la voce.
I ragazzi, ieri dei pulcini,
si baciano selvatici
dietro ai muri infuocati.
Si dicono parole vere
come doni sull’ altare,
sanno che l’ anima del fuoco
è nella fiamma,
non nella durata.
E nello slargo di un bacio
senza risparmio né perdita
è tutta luce da luce.
La porta si è aperta.
Setèmbar
A i trôv int e’ taraz,
dri a la finëstra,
int l’ êria tévda
de’ dopmezdè,
tot chi nimalin.
Stuglè, i n’s’ môv.
Par tnì l’ utum sopi
i fa cont d’ ës murt
e me a faz cont ad crédi,
toti röbi imparêdi par campê.
Mo du ch’a séra me,
cs a faséva,
quânt agli éli agli arluséva
int e’ su vól,
quânt l’ armór di su virstin
l’ éra e’ mog dl’ istêda.
A i scanséva, sânza adêman.
E adês ch’ a i vegh stuglé
u m’ pê d’ avé fat un pchê
e a m’n’ adagh tröp têrd
ch’ a j avéva sól
da fêm tuchê.
Settembre
Li trovo sul terrazzo,
vicino alla finestra,
nell’ aria tiepida
del pomeriggio,
tutti quegli insettini.
Per tenere l’ ultimo soffio
fanno finta di essere morti
ed io faccio finta di crederci,
tutte cose imparare per vivere.
Ma dov’ero io,
cosa facevo,
quando le ali risplendevano
nel loro volo,
quando il suono dei loro versettini
era il mugghio dell’ estate.
Li scansavo, senza accorgermene.
Ed ora che li vedo distesi
mi sembra di aver commesso un peccato
e mi accorgo troppo tardi
che dovevo solo
lasciarmi toccare.
nel video la lettura dei testi a cura dell’autrice
Per Aquistare: