Vanina Zaccaria
Non si muore di notte
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Q.B. PRIMO PIANO
Nota di lettura a Non si muore di notte
VANINA ZACCARIA (RP Libri, 2020)
I.
“Non si muore di notte/in mezzo alle ombre/Si muore di giorno/sotto il fendente della luce/irrigiditi dalle forme/La clava, la giusta postura /la ruota/il segno del fratello sulla pietra/Tutte le cose/sono tutta la tua memoria…”
Il libro di Vanina Zaccaria riceve la sua nominazione in questi versi che apparterrebbero, in realtà, all’ultima poesia del secondo ciclo in cui è articolato il progetto di scrittura, che vorrebbero completarlo o chiuderlo ma che sono chiamati, invece, a presentarlo al lettore con un moto contrario.
Gli strumenti utilizzati -umani, alla Sereni, ma già oltre la possibilità di essere percepiti come tali- sono il Sogno e il Sonno, il Tempo e la Storia.
Faccio un piccolo salto all’indietro, a una precedente pièce intitolata Dialogo di Storia e Utopia, alla storia nel suo aspetto concreto, relativo a ciò che ha avuto luogo e si è compiuto nel perimetro di ogni biografia e nei suoi multipli, e all’utopia come fattore di dissenso, tentativo di sovvertire l’ordine delle cose aprendo un varco al possibile.
Che cosa accade quando lo spazio di una biografia -per quanto denso di accadimenti- perde il suo radicamento in un percorso collettivo fatto di grandi eventi o di somiglianza di destini?
Accade che la vita stessa cada fuori dalla Storia, che ne rappresenti uno scarto o un rifiuto: accade che quel percorso si svuoti di senso. Ecco perché Il sogno -che sembrerebbe essere elemento contrario alla vita e all’azione- diventa la possibilità concreta di cambiare la storia e le storie.
Tra le articolazioni che Vico richiamava per dividere la storia in età, quella che sembra essere più vicina a Vanina Zaccaria è l’Età degli Dèi, quella in cui gli uomini, affidandosi esclusivamente ai propri sensi e alla loro fantasia, interpretano il mondo come un organismo complesso in cui le potenze naturali diventano divinità -manifeste o ritrose, rivolte al bene o al castigo.
Il volere delle divinità si fa presente e vivo attraverso auspici o oracoli, il linguaggio delle origini accoglie e rielabora le credenze concretizzandosi nei riti misterici e nei miti religiosi. Vico assegna al grado della fantasia lo sviluppo della sapienza poetica: la poesia, nata prima della ragione, e indipendente da essa, è così espressione di una facoltà a sé stante con cui gli uomini esprimono il trascendente per il tramite del linguaggio: la poetessa richiama espressamente gli “universali fantastici” per ribadire che il percorso di ogni uomo -così come quello dell’umanità di cui è parte integrante- deve rimanere saldamente legato allo sviluppo temporale e all’ordinata trascrizione degli eventi, alla cronaca e alla storiografia, ma non può sussistere in assenza di un’estesa, permanente rielaborazione dell’immaginario.
II.
“Con le mani che non tengono/Hai sceso lenta la parete di roccia/Il piccolo piede gemeva/A ogni curva” Una poesia barbara, a voler cercare il conforto di una definizione. C’è un libro che, più di altri, deve aver influenzato Vanina Zaccaria come antropologa -l’elenco dei suoi interessi e dei suoi titoli sarebbe lungo da declinare qui. Vanina dice, in una delle conversazioni che ho avuto con lei nel corso di questi anni, che preferisce l’antropologia ad altre scienze sociali (la sociologia, ad esempio) in quanto possiede strumenti più elementari, in grado di definire la realtà e di spiegarne le manifestazioni fenomeniche in maniera più immediata.
Il libro al quale penso è Storia e utopia di E.M. Cioran, che rifiutava qualsiasi attualità che non fosse quella della caduta originaria, il precipitare perenne del tempo. Leggiamo in quest’opera: “…una volta cacciato dal paradiso, l’uomo, perché non ci pensasse più e non ne soffrisse, ottenne in compenso la facoltà di volere, di tendere all’atto, di inabissarvisi con entusiasmo, con brio”. All’interno di quella cosa che chiamiamo Storia, agiscono forze disordinate che non solo gli storici, ma altri teorici ed esegeti, trascurano di considerare. Cioran le osserva, le descrive come tappe di un viaggio inevitabile che potremmo indicare come “odissea del rancore”, facendo i conti con un’eventualità ancora più disperante degli avvenimenti umani del passato: la pretesa di uscirne con i mezzi forgiati dalla storia stessa, i programmi, i movimenti, le utopie. A rigore, il filosofo contesta alle utopie di essere “inferni rosati” a causa delle buone intenzioni che, più che allontanare dalla realtà, avrebbero il difetto di precipitarci in un futuro ancora peggiore; in luogo di questo inferno rosato delle possibilità mancate che sarebbe Utopia, Vanina Zaccaria riafferma a contrario la sua necessità per incidere una realtà mortificante o uscire da essa ed entrare nel possibile (il tutto si deve compiere attraverso il Sogno).
È lecito chiedersi, a questo punto, se sia più facile confezionare un’utopia che un’apocalisse? L’una e l’altra hanno i loro principi e le loro banalità, ma la prima ha luoghi comuni che si accordano meglio con i nostri istinti profondi: per entrambe l’attesa cruciale può trasformarsi in illusione, ma l’utopia storica si configura sempre come alternativa critica rispetto alla realtà presente, dotata di una sua intrinseca razionalità (non a caso Utopo, il leggendario fondatore, volle che Utopia diventasse un’isola tagliando il lembo di terra che la congiungeva al continente).
Così Vanina Zaccaria chiama i personaggi della Storia -e del suo libro- direttamente in causa, consultandoli come oracoli: La bella Remedios, Isidora, il Mercante d’armi: la vita in loro diventa taglio, eresia, riformulazione del racconto e della materia. Lo scisma che ne risulta ripara al male originario, l’infrazione all’ordine universale riaddormenta i mostri e se ne distingue, luminosa e fragile.
III
Le enormi forme della pietà/ti fanno ombra e ti sopravvivono.
La Storia, costretta a constatare e ad ammettere sempre il fallimento più che il compimento delle nostre speranze, non ha ratificato nessuna delle previsioni indulgenti che erano state formulate.
I grandi eventi richiamati in Non si muore di notte -il secolo breve che, in un ossimoro solo apparente, stenta ancora a chiudersi e a fare i conti con la fine delle ideologie, dei sistemi di pensiero e delle religioni- sperimentano lo stesso oblio delle piccole storie individuali, le vite semplici di tutti: anche se la Storia batte il suo ritmo con forza richiamando la violenza e la devastazione dei conflitti che hanno segnato tutto il XX secolo e che ancora sono all’origine delle discordie dei giorni nostri, le singole esistenze degli ultimi sperimentano lo stesso destino, sono “consumate, lasciate morire” nel lento, inesorabile lavoro del tempo.
Anche nei limiti che abbiamo evidenziato prima, l’Utopia riesce comunque a mettere al bando “l’irrazionale del comportamento e l’irreparabile dei fatti”, opponendosi alla tragedia che, in ultima istanza, è la rappresentazione più veritiera -proprio in quanto paradossale- della storia.
Il Sogno-Sonno è lo strumento che Vanina Zaccaria utilizza per affrancarci dal male, un sogno che non è pausa dalla vita cosciente e dall’azione ma che accompagna in nostro essere al mondo e la nostra ricerca, un sogno vivace, carnale, che ricrea la contingenza per arrivare alla Visione. È la costruzione di un tempio maestoso in cui trovano posto la Grecia di Elytis e di Seferis come quella di Archiloco e di Omero, la Russia di Esenin e della Achmatova come l’Ungheria di Attila Jòzsef, un mondo contadino che è quello dell’innocenza e dell’infanzia del mondo, cantato con versi dai ritmi cadenzati, sostenuti da intervalli e cesure, da una melodia interna che risponde a un tempo proprio che tiene conto della metrica classica anche quando la scompone e la rielabora.
Così, i complessi rimandi che intrecciano la dimensione della storia con quella del mito e delle realtà geografiche più lontane tra loro ci conducono a componimenti dove diventa più urgente il farsi della parola, dove la poetessa attende il compiersi simultaneo di tutti gli eventi per materializzare la sua visione e farla diventare opera d’arte, fino alla conclusione affidata come viatico alla lirica finale “… E così rimase Memoria/sguaiata e tiepida/come l’amore senza perdono”.
È questa, credo, la possibile via di fuga indicata da Vanina, la Memoria che è tracciante da seguire per non cedere alla negazione della dignità dell’uomo di fronte all’imponderabile e al terribile, -la notte, i momenti bui- per richiamare invece la forza necessaria per essere consapevoli e presenti anche nella ferita e nello strazio, per restare dritti e fieri nel “fendente della luce”. ll mondo che Vanina Zaccaria ci indica, finalmente, è una dimensione dove è possibile guardare ciò che non si è conosciuto direttamente e quello che si è attraversato, le figure e gli eventi richiamati attraverso la memoria oltre ogni possibile linea d’ombra.
Da Non si muore di notte (RP Libri, 2020)
Il deperimento delle cose
come una lebbra antica che passa e che rovina
L’inverno furioso si scaraventa sulle balconate
ne muove i ferri come fossero banchi d’alghe
Ci perderemo, simili ai pensatori del deserto
si scavalcano staccionate di sabbia
pensando alle brillanti navi di Acapulco
disarmate e senza schiavi
Ho atteso per molte notti lo stesso sogno
era l’uomo magro con la valigia di cammello
che mi portava mercanzie importanti
Era l’uomo che aveva conosciuto il Pacifico
e visto muoversi donne flebili dietro le tende di Manila
sulla via tortuosa del commercio e della guerra
Ho atteso ogni notte lo stesso sogno
ma venne il sonno nero senza occhi
la luce malevola della lanterna a olio del mercante d’armi
che immobile su una seggiola
lucidava il fianco di una spada
così rimase Memoria
sguaiata e tiepida
come l’amore senza perdono
*
Ti ho vista seduta presso la fossa
precedevi i fatti del giorno
sapevi a memoria tutta la storia
eppure attendevi il prodigio elementare
Ferma come il lago l’intera nostra vicenda
nera e con la folaga immersa
che disperatamente chiama
il suo simile da una parte all’altra dell’acqua
Come quel pennuto che non vola
resti incerta tra le canne e la sponda,
adesso che anche la morte
non è più un segreto
tutto ti affanna
*
Non ho memoria del tempo
che ha scavato la mia figura
Se tutta mi piego
nella sera improvvisa
non è per preghiera
Sono già di polvere i nostri capelli
e la giostra della fiera
corre ancora ed è lontana
Resto esposta
come il nido della poiana
il tasso morto sulla strada
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