Luca Pizzolito
Getsemani
(perQuod,
2023)
a cura di Nadia Scappini
da ilT quotidiano indipendente del Trentino AltoAdige
Le mani strette sotto
il cuscino, il niente
che segue l’amore.
Cadi, dio inatteso, cadi
in puro sguardo visione
ciò che amato muore,
non resta.
*
Luglio qui si attende
nelle crepe.
Scrivere è il mio
secondo esilio.
Tradito e perso l’istante
esatto del fuoco
ombra rubata al sole
la follia del sonno
disfare le stanze in cui
abbiamo vissuto
– ho cercato casa, riparo nel vento.
*
Separate
acque al deserto
della mia sete
le esequie del mare la noia il gesto il perdono
la parola taciuta, il nostro manto di rovi
(in questo inverno, tutti gli inverni)
*
Spina di cardo
bianco costato
folle perdono
del sangue
– mio padre
è cieco,
traccia la via
solo col canto
*
Custodite, dici, custodite
del ventre la piaga, il caldo
respiro dei sassi, i corpi
separati così vicini al morire.
Le vuote stanze di Dio
misurati spazi in rumorosa
quiete.
*
Ciuffi di parietaria,
insetti morti, lo stelo
del cardo fiorito
nel sonno.
Cade vita dagli occhi
arde la fossa
– l’inatteso risorto.
*
Manto di spine
lacera il verbo
volto d’antica
inumana bellezza
– Dio –
ha sempre sete
chi rimane.
*
Un cielo caduto
l’ultima pietra sul viso
vieni dal vento, dal grido
schiacciato in gola
questa distanza da me,
da tutte le cose.
*
Chi getta il tuo nome nell’abisso
per trenta denari?
Chi dorme durante la veglia?
Chi stringe i polsi e ti spinge
in catene?
Si spegne il canto
perdono e rovina –
gocce di sangue
dal volto di Dio –
Nessuno torna innocente
da questo Getsemani,
nessuno è mai stato
fedele davvero.
*
Inquieto stare dei corpi,
sacre albe di luce
bicchieri vuoti
trasfigura l’attesa,
l’umano tormento
in danza.
Getsemani (ebr. gat šemanîm «frantoio») è l’orto sul Monte degli Olivi, fuori dalle mura orientali di Gerusalemme, quello che segna l’inizio della Passione di Gesù: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare” (Matteo 26:36-46). Ad esso si ispira il potente libro di Luca Pizzolitto che, dopo più di duemila anni, a differenza dei discepoli distratti, ha deciso di attraversare insieme a Lui lo strazio dell’abbandono e della solitudine raccontandolo in parole scarne, sofferte, essenziali. Con orgoglio ha confessato “di essere stato salvato anni fa dalla poesia, quel lumicino tenue, quasi invisibile ma tenace nel cuore della notte…Un buio reso umano quando il dolore s’è incrinato, accolto da altre mani…”. Una trilogia testimonia fedelmente questo suo cammino: La ragione della polvere (2020) in cui affronta il tema della caducità delle cose; Crocevia dei cammini (2022) imperniata sulle infinite possibilità dell’incontro con sé stessi, con l’altro, con l’oltre; infine Getsemani, che affonda sull’episodio evangelico forse più drammatico che conosciamo in cui ci dice che Dio aveva bisogno dell’annullamento del figlio, della sua sofferenza ai limiti della sopportazione perché potesse compiersi il riscatto dell’uomo dal peccato d’origine e accedere alla salvezza. Quante volte ci sentiamo abbandonati nelle circostanze più diverse della nostra esistenza? Qui si toccano corde sensibili che vibrano ogniqualvolta il nostro corpo somatizza il dolore più crudo che possa esserci, l’abbandono senza appello persino da parte di chi ci ama o dice di amarci. Così, per entrare in questa straordinaria avventura spirituale che, come tutte le avventure spirituali “sono dei calvari” (G. Bernanos), ho pescato nella memoria. E, guarda caso, la prima a soccorrermi è stata la grande Emily Dickinson che all’amica Mary Hills, nel 1884, dopo una serie di lutti che l’avevano profondamente segnata, così scrive: «Quando Gesù ci parla di suo Padre, non ci fidiamo delle sue parole. Quando ci indica la sua Casa, gli volgiamo le spalle, ma quando ci confida di conoscere il dolore, lo stiamo ad ascoltare, perché quella è una conoscenza anche nostra». Ciò che ce lo fa sentire vicino, veramente nostro, è dunque la sua scelta di caricare su di sé il dolore condividendolo con ciascun uomo di ogni tempo. La vita purtroppo imprime chiodi e fili spinati, ma questi possono anche farsi pietosi e aperti alla tenerezza; e forse proprio nella lontananza e nell’abbandono sarà dato di sperimentare il mistero della vita – suggerisce Luca Pizzolitto – a chi non ne ha esperienza. Il libro è ripartito in quattro sezioni: Geografia della sete, Nelle stanze senza fuoco, Noi resi a noi stessi, Come i gigli dei campi. Sulla prima accende un lume prezioso la poeta e critica Franca Alaimo ricordando il passo evangelico di Giovanni sull’incontro di Gesù con la Samaritana ed evidenziando che è Cristo a chiederle di dargli da bere “ad andare incontro alla sua sete, invitandola ad individuarla attraverso uno scavo sempre più profondo… per poi rivelarle di essere Lui stesso la sorgente d’acqua viva che zampilla in eterno”. Dunque anche Dio ha sete di noi e la sua sete si placa “nell’assenso amoroso dell’uomo e quella dell’uomo nell’abbandono totale in Dio”. Ed ecco la parola, quella della poesia, “che trasforma l’esilio in speranza, che ritesse il filo spezzato della vita” (Y. Bonnefois) e consente di cogliere il sacro nei giorni grigi, di intuire tra gli scarti l’inatteso nell’esilio in cui talvolta ci sentiamo confinati sulla Terra. Ma c’è una dedica in apertura che non può passare inosservata “In memoria di Ugo Fama” “per avermi tratto in salvo / ed insegnato il mare aperto”, la quale trova il suo compimento nelle due paginette conclusive che ospitano quattro testi decisivi, ciascuno dei quali disegna nell’ultimo verso in corsivo poche decisive parole: “redenta croce, amato sguardo”; “nessuna parola”; “sostanza stessa di dio”; “il tuo cuore è cieli quieti e lontananza”. Luca Pizzolitto “fa della malattia un discrimine tra due dimensioni, quella del dicibile e quella del silenzio, indotto e necessario di fronte alla contemplazione della morte” (R. Deidier), qualcosa di simile all’esperienza di Cristo, dio incarnato, nell’orto degli Ulivi. Accanto a Emily Dickinson recupero nella memoria Vittorio Gassman che, alludendo al momento disperato che stava attraversando (la malattia), ricordò il valore terapeutico della parola, cura e mistero al tempo stesso: “Tento di dire qualcosa a Dio. È una fede altalenante, che va e viene, costantemente insidiata dal dubbio. Ma credo. E spero di continuare a credere… mando letterine a Dio in forma poetica. Non ho ancora ricevuto risposta. La fila dei disperati è lunga”. Una terza riflessione può derivare dall’esperienza genitoriale. Un figlio è una proiezione di sé, un pezzo della propria vita che s’infutura. Su di lui il genitore ha il dovere e l’istinto di vigilare, ne osserva la crescita, il percorso, le scelte; per lui soffre, gioisce, spesso in silenzio e impotente per rispetto della sua libertà. Perché dovrebbe essere diverso per Dio di cui, per chi crede, siamo tutti figli prediletti? A questo Dio amorevole, un po’ bistrattato, Mariangela Gualtieri, attrice di talento, si rivolge in un colloquio confidenziale nel dialetto romagnolo, nel Coro delle bestemmiatrici (da Fuoco centrale, Einaudi, 2003): … mé ò pietà par té che ta s’é fat/e tà n’é modi gnenca da ciapès in braz. /O magara ta l’é? (… io ho pietà per te che ci hai fatti / e non hai modo neanche di prenderci in braccio. / O magari ce l’hai?) E aggiunge in altri passaggi che riporto direttamente nella versione in italiano: “Signore potentissimo e strano, / noi non capiamo: Ci hai buttato dentro un’ora scura / signore molto strano molto strano, la tua croce /era un supplizio bello, con sopra tutto un cielo arabicano, / con la tua mamma vicino, con quel grande destino. / E però tu hai tremato…”.
“Tu hai tremato” eccolo il Signore, uno di noi che trema insieme a noi! Insomma, ne vien fuori un Dio madre e padre che, come in “Getsemani”, subisce caricandosi sulle spalle (su-stuli) la nostra sofferenza. Se solo ci lasciassimo sfiorare dal pensiero di questo patire così profondo ed esteso di Dio, allora tante nostre domande, tante nostre disperazioni o perplessità sull’assenza o sul suo silenzio potrebbero trovare una risposta. “La sosta nell’orto degli ulivi è la prima tappa di un itinerario che prevede la discesa catartica, infine la liberazione; nella terribile esperienza lì narrata, ma anche nella vita di Ciascuno”. Questo osserva, tra le numerose altre riflessioni, Roberto Deidier nella tesa, accurata e geniale prefazione a questo splendido testo di Pizzolitto in cui ciascuno potrà trovare un motivo per riprendere il coraggio smarrito.
Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale.
Da più di vent’anni si interessa ed occupa di poesia.
Tra i suoi libri, figurano: Dove non sono mai stato (Campanotto), Il tempo fertile della solitudine (Campanotto), Tornando a casa (Puntoacapo).
Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La ragione della polvere (2020), Crocevia dei cammini (2022), Getsemani (2023, prefazione di Roberto Deidier).
Nel 2023, è stato inserito all’interno dell’antologia Nord i poeti, vol. II, edita da Macabor.
Da fine 2021 dirige la collana di poesia Portosepolto, sempre per conto della casa editrice peQuod.
È ideatore e redattore del blog poetico “Bottega Portosepolto”.
Cura la rubrica Discreto sguardo per la rivista on line “Poesia del nostro tempo”, Nostos – ritorno alla parola per il blog L’Estroverso, Polaroid – istantanee di poesia per FaraPoesia.