Anna Franceschini
Q.B. PRIMO PIANO
Nota di lettura su Pietre da taglio
Anna Franceschini (Rosada, 2021)
Colpiscono come un pugno allo stomaco i versi di Clarice Lispector e di Paul Celan scelti da Anna Franceschini come esergo del suo libro Pietre da taglio. Scelta che suona come un avvertimento: qui si tratta di faccende serie e dolorose, dunque sarà bene predisporre gli animi ad un ascolto assoluto, totalizzante, che coinvolga cuore, mente, sensi, esperienze, ricordi, sogni e tutto ciò che ha a che fare con il noumeno.
La forza della pietra che, cadendo, ne spinge / un’altra che finisce per cadere nel mare e / ammazzare un pesce (Clarice Lispector): chi sarà il pesce che finisce ammazzato nel mare per forza di una pietra che agisce su un’altra per caduta? E da dove deriverà la forza della pietra capace di causare tanto male? Le pietre in questione non hanno funzione decorativa, ovviamente, sono solo capaci di tagliare – il titolo del libro è chiaro -, dunque di provocare sofferenza, finanche la morte. E, ancora, La mantide, di nuovo, / sulla nuca della parola / in cui ti eri rifugiato (Paul Celan): cosa rappresenta la mantide, insetto curioso per le zampette taglienti così simili a mani giunte in preghiera e un’etimologia che attiene alla profezia? Anche in questo caso un essere – questa volta animato – capace di tagliare, di infliggere sofferenze a tradimento, senza destare sospetto, anche su quel prezioso rifugio che per taluni è la parola.
E allora, ecco che la lettura di questi testi impegnativi e polisemici, in diversi punti spiazzanti, diventano una sfida per noi lettrici/lettori; ma forse lo è stata in primo luogo per l’autrice: una sorta di redde rationem a due opposte spinte. Quella diaristica-razionale e quella, assai più dolorosa, inquietante e ricorrente, di tipo onirico, quindi incontrollabile, sfuggente. Ciò che, a un certo punto del percorso umano e poetico di Anna Franceschini, non le ha dato tregua, invocando un chiarimento che poteva maturare solo facendo dialogare le due pulsioni. Forse con una propensione per la via psicanalitica e artistica, attraverso una parola capace di incursioni nell’oltre, scendendo la scala a chiocciola del mistero, le regioni dell’ombra, allo scopo di risalirne con un barlume di luce. Cosa che ha richiesto un montaggio faticoso per dare respiro e sostegno a una voce tramata di parole asciutte, dense, spesso simboliche.
Ci sono numerose figure femminili seminate in questi versi, per lo più madri in senso stretto ma anche madri-suore; ci sono bambini che insieme a loro si dibattono in gabbie reali e metaforiche oltre che sociali; non ci sono padri! Assenti i padri, clamorosamente assenti, sì, ma in lontananza non si può non avvertire un urlo lacerante che svela, dentro l’assenza, una presenza ingombrante, una sorta di super io inquietante che si impone per contrasto. Viene da pensare che in questo raccontare doloroso, che è ricerca spudorata, non ci sia abbastanza luce, che anzi tutto sia un po’ sfocato, ma che il fine sia invece chiaro e decisivo: vedere bene. Anche se non è mai facile capire, anche se perdersi è inevitabile se si ambisce poi a ritrovarsi.
Anna Franceschini non dà risposte, ogni sua domanda può solo generare altre domande che spiazzano il lettore. Parla in modo criptico, ostico come volesse ergere una barriera di difesa. Nulla pare definitivo né definitorio, non chiude ma non apre e, quando apre varchi e solleva veli, sembra pentirsene e tornare poi a rinchiudersi nella sua ostinata e apparentemente immedicabile solitudine/difesa. Ma non è diffidenza la sua, o, se può apparire tale, essa viene felicemente neutralizzata dal gesto rivoluzionario di usare la parola poetica per imbastire una relazione con l’altro da sé, con il mondo.
Angoscia, disperazione, ineluttabilità sembrano attraversare la prima parte della narrazione in versi. “Non sa a che serva questa vite, e costruirà un ponte”: mi si affaccia alla mente questo verso da “Ritratto di donna” di Wislawa Szymborska per dire che dopo la negazione, il buio, l’incertezza, sia pure con ritrosia e per balzi, la nostra lascia trapelare una scia di luce, come a dire che una donna sarà comunque in grado di gettare reti, costruire ponti. Ascoltiamola quando ci dice rimetti i vertici alle pareti numera le parti / se è madre un io dentro la carne / e di lui resta ambiguo perde il segno e ancora un corridoio stretto / gelido oltre il finestrino si amplifica / convoglio uterino acqua mista comandata/ si apre tiene il segno fa passare per cercare di animare quel vuoto al centro, quella scala rigida che porta verso l’altro, quasi irraggiungibile, dove pare che solo donne siano in grado di salire o ne abbiano la volontà e la determinazione. Che significa ho sognato? Un auspicio, una constatazione della capacità esclusiva delle donne di farlo e di leggerne i segni?
“Si è solo stanchi. In un modo che occupa talmente il corpo da spodestarlo” constata e suggerisce Insel Marty, un’altra raffinata poetessa- psichiatra a me cara. Penso anche al “pozzo”, dove è facile cadere, della corrispondenza tra Natalia Ginzburg e Alba De Céspedes (pubblicata nel 1948 sulla rivista “Mercurio”) che ho sempre ritenuto valida e illuminante anche per le donne di oggi: ma a me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e di schiavitù e che non sarà tanto facile vincere… Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo. È molto difficile che riescano ad indentificarsi col lavoro che fanno, è difficile che riescano ad affiorare da quelle acque buie e dolorose della loro malinconia e dimenticarsi di se stesse… quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così devo imparare a fare anch’io per la prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi.
“Parole femministe che ripensano gli spazi condivisi, riformulano le relazioni e i rapporti di potere che le determinano, che ogni volta partono da quel grande motore che è la consapevolezza di sé, del proprio diritto a una buona vita, a una libertà di nominarsi e nominare il mondo” dice bene Caterina Serra nella sua nota introduttiva.
Temi quanto mai attuali in questo tempo dove le donne vengono uccise, magari nella loro casa, luogo che dovrebbe proteggere e diventa utero buio, spazio ristretto e soffocante, come la cucina, luogo dove il cibo dovrebbe farsi sostanza di vita per la famiglia e può diventare la cucina in cui si flagella, si taglia, si invade la sostanza appena morta, spazio dell’abbandono dove gli oggetti, persino i cardini della porta possono urlare.
Provo ad elencare, estrapolandole da singoli testi, alcune espressioni che disegnano una situazione claustrofobica: “corridoio stretto” “convoglio uterino” “un io dentro la carne” “in pugno esserci” “un palcoscenico buio / dietro una scala” “dentro si è legati” “escono i bisogni in spazi ristretti” “colore opaco voce scura/ diranno la paura il silenzio scomposto/ tra pelle e tessuto” “la curva cede strapiombo” “bocca da cui esce un tronco di lingua” “le cornici malevole dei non nati” fino ad un testo chiave, “Scena aperta”, che lascia intravvedere almeno uno spiraglio di soluzione “Nel caldo movimento dei corpi la parola / ferita del tempo a ritroso / sapere che è accaduto / uscire nella realtà come in un sogno chiuso”. E, bellissimo quel Si stava in cerchio si parlava una alla volta anche di sé.
“Ci vuole la scrittura, la parola che si incarna, per ripensare il mondo, per non cadere ogni volta in qualche abisso culturale che ci affonda, perché corpi e case ci legano ad affetti di cui non sappiamo o non possiamo fare a meno…” dice ancora Caterina Serra, e non si può non ricordare il grande Italo Svevo quando scriveva che gli pareva di avere vissuto solo ciò che aveva fissato nella scrittura.
Poi, di nuovo, torna il sogno a soccorrere Anna Franceschini nel suo percorso di conoscenza.
Nessuna scena davvero vissuta un cerchio la vita / confusione… sovrapposizione permanente / poteva andare dove era davvero stata./
La tavola il legno che tiene il bicchiere / l’importanza del respiro corto sulle scale / dire sempre meno che non è nulla / morire per un’immagine che si è perduta.
Nella seconda parte del volume l’attenzione converge sui bimbi, infanti come le donne, come le mamme che hanno smarrito la parola, e dunque la libertà, schiacciate da pesi divenuti nell’arco dei secoli insostenibili: Il centro protetto, Brefotrofio, Pietre da Taglio sono le sezioni in cui si dipana e si chiude il cerchio avviato fin dai primi versi di questo piccolo doloroso volume. Anche qui si cerca un linguaggio per decifrare il mondo, per comprendere e raccontare le cose, per accoglierle o lasciarle. Ricreavamo le utilità del mondo, renderci utili era da adulti; mentre noi avevamo solo bisogni da nascondere, che, se ce li prendevano, eravamo poi in balia di forze sconosciute // tali da non sapere più di esistere. E, ancora, le parole gli si arrotolavano strette attorno alla lingua, fino a fargli pronunciare un po’ di vocali che erano più facili, perché venivano da dentro, con il respiro. Alla fine Casa erano tutte a di stupore e silenzio. Aveva quattro anni, che è già tanto, e ancora non si esprimeva…
Sta ora a noi lettrici/lettori trovare tra questi versi un sentiero di rinnovate riflessioni.