Giancarlo Sissa

(Moretti & Vitali, 

2023)

IL BAMBINO PERFETTO (2008)

III

Ma è così, tenera e terrena, sei porta all’avventarsi del mare a questa storia. Ti precede una colomba sul selciato della domenica e sogni di foglie mute. Io da trent’anni non ho passato un giorno senza leggere, non sottolineo tutto quello che mi piace, a volte ci penso per notti, riapro il libro, cerco un verso, segno il tralasciato, che entri quel che resta del mondo. Altri versi aspettano che l’uso li liberi dalla condizione proletaria, sono la pasta che avvolge i chicchi di uva passa. Poi chissà se ancora soffri nel ricordo o se invece hai steso gli occhi come ali quando bambini …

… o una città ricchissima e violenta, cruenta nel suo incessante, sommesso giudicare dove in silenzio o sottovoce si decide chi non avrà scampo. Ha i piedi freddi e il petto soffocato dal profitto. Salvano e si salvano solo poche, bizzose figure anarchiche, secche e acide come il vino rosso andato a male, che cianciano di verità, qua e là nella nebbia ghiacciata d’inverno, o sconfitti d’estate al bordo d’una piscina, le pance bianche esposte al nulla del calore.

 

Ora insorta dell’Ade
(per l’amico scomparso)

I

Ora nel sonno ti sazia la neve. Le dai obbedienza, tuorlo di morte nel suo albume, se in albe silenziose ti raggiunge l’elenco dei disgusti, un cielo buio di piccioni. Ascolti il suono dei muri, lo spazio d’angoscia fra pietra e pietra, l’incerto colore del cuore misura l’assenza, il nulla che resta, l’incantesimo della paura, e nessun dio, un grande senza.

Perché nell’ora insorta si sfarina la combustione del dolore – azzurra radice fatta carbone e spoglio nella terra indecifrabile il tremore della foglia a un muro bianco di ore estive, serietà chiamando la perfetta schiavitù.

E oltre lo specchio le stesse cose, oltre l’argine ogni parola attinge al fiume il suo grido. Errore di bellezza ciò che nutre le bestie, il volo di rapina, la vela confine, la scompassionata umiltà, la sgarbata pietà.

 

L’impostura  (parabola del poeta educatore)

Ma il bambino sa che occorre disimparare la tregua, non fidarsene. Si graffia la faccia, spurga il sogno come una malattia oscura, si fa leggero, desiderio non condiviso, canta in grembiule nella cucina luminosa e senza speranza. È una barca viva sul fiume del sonno.

Molti anni dopo ritaglia mari dalle riviste, cerca prove del sacro. La parete orientale del mare resiste al ritorno. Ne viene una luce addolorata che quasi impaura, come il basso d’un suono troppo cupo. Ogni giorno il processo delle ombre, nuovi malinconici verbali, sciami di fantasmi nel muto movimento delle labbra.

Ora precipita dal ventre della poesia – così la chiama – e si stende come all’orizzonte un volo di bombardieri, l’abisso spalancato verso l’alto. Nel vicolo fiorisce piano la luce appena nevicante della putrefazione. Imputridisce infatti la devozione nell’acqua del pensiero. Dov’è nato tutto si arresta e tace – occhi gli hanno dato corpo e storia – per subito farsi nebbia, rabbia, zanzara. Altri suoni inacidiscono nell’algore dei piazzali deserti d’inverno

 

Il seme del disordine

Poi un giorno gli anni sono una lunga lingua d’esilio, la misura del tempo che resta, il congegno velenoso della pratica inevasa, l’incomprensibile reciproco aizzarsi o l’invito al silenzio. Poi muta il vento e si resta in ginocchio a sorvegliare il confine come cani di buio, a sorvegliare l’appartenenza a un dire scomposto, le nostre stesse radici sprofondando in un’allegria di altri vuoti, dove le domande della paura diventano corpo. Del resto, a che pro mostrarsi ragionevoli rischiando di fallire? Il varco è musica d’occhi.

La depressione e le sue figure propongono in modo certo il grande problema dell’irrealtà. Come giovanotti d’un tempo, in canottiera a un cinema all’aperto, davanti a un film d’amore … la medusa nera del nulla, fossi dove s’accendono molli pensieri di lumache, una manciata di foglie secche in una scatola, un libro pieno di sabbia, l’edera che abita la parte oscura mentre resiste la candela nell’acqua del bicchiere, la peste nel cuore.

Nello spazio tra muro e muro, tra pietra e pietra, nel tempo fra l’una e l’altra goccia della pioggia che si annuncia, nello spazio fra armadio e parete, in una penombra di polvere, vivono i sogni dei morti, senza risposta come passi che tornano dall’amore. Fuori dalla finestra il cielo è un oceano capovolto.

 

Le acque del sogno

E penso che solo l’imperfezione è misteriosa. E che si processa ogni giorno in una sua sfinita malinconia. Panchine scolorite di un parco. Una scabra scoria di terra fra condominio e condominio. Isole di dolore e il nevischio negli occhi, come uno schermo di fame. Queste città, ad esempio, che scacciano mosche dal pesce al mercato, stanno nella noia degli aperitivi, schioccano la loro voce nella violenza del dialetto, nel sudiciume delle banconote.

E già nel tanfo dei fossi s’annunciavano rutti e benzine, piccoli furti e il giallo serale delle periferie sospese nel nulla, come oltre un silenzio di cannocchiale. E i fiati caldi del sesso, i deodoranti delle ragazzine di buona famiglia piegate in avanti. Nei recessi del buio di biciclette e fradice cantine si celava il passaggio. E ogni mattina la piazza piena di vecchi, come cani a mordersi il cuore.

 

PERSONA MINORE (2015)
Esilio

1

Non sapevo in quale direzione dovesse farsi il viaggio, in quale siepe cercare le domande, come immaginare le strade di… o un’altra città mangiata dalla nebbia. Il mondo mi attraversava lasciandomi deserto, la luce non ospitava volo, brezza, foglia, ma solo tracce di un sogno di una bellezza impura, disperante e lontana come voci soffocate nella sabbia. Ora dicevo amore, amore mio che domini i sogni della neve nel mattino, portami nella danza, nel giro del fiore in ogni direzione del corpo. Ogni passo è un dio che trema e ringrazia.

Ancora esilio
(a Giancarlo Sissa)

Abito il mio cadavere. L’immagine che affonda nello specchio come una mela nell’acqua. La neve nel parco è figlia della cometa, vela nera del tempo. Rabbrividiscono le finestre del mattino, la luce accesa nella cucina del sonno, e vengono come in sogno, come la briciola che cade e feconda, in silenzio vengono, con lentissima evidenza, i passi del disastro, le cerimonie della confusione.

 

ARCHIVIO DEL PADRE (2020)

24 maggio 2018

Quest’uomo seduto su una panchina nella piazza allagata dal sole. Quest’uomo che attende e ci parla lontano. Quest’uomo prima che arrivassimo era. La statua di mio padre. Antichissima nella luce e un giorno. La mia.

21 agosto 2018

Cinque generazioni hanno costruito il tavolo su cui scrivo. Nella cucina in cui ascolto. In riva al bosco che sogna. Pippo bombardava la ferrovia. Le scuole i cortili. Delle osterie. Il Rio gira verso il sole. Ancora una volta all’angolo della parola. Dove giocavano i bambini.

Forse ogni fiume è un diario. Penso in prossimità del Po e ogni. Diario un campo seminato dai sogni dei padri. Perché nel nome di ognuno è contenuta la parola che tace.

8 ottobre 2018

Bisognava avere pietà prima smetterla. Di avere sempre ragione.

Ora è venuto il tempo della serietà e della severità. Ora è venuto il tempo della passione e della compassione. Perdono contrario e della. Dimenticanza contrario. Della presunzione.

Le barche si preparano alla nebbia del grande fiume. A raccogliere i bambini del secolo scorso. A salvarli da ignoranza e vanità da. Nidi senza piume.

10 novembre 2018

Quanta paura fa il padre buono. Dopo di lui non ci sono più scuse. Ci sfiora l’enorme silenzio buio di un veliero. A lume di candela nel ventre del pescecane. Lettere scritte nella penombra degli scalini.

Fuori dalla porta attraversare il fuoco. Per difetto del dispetto sei tornato a casa. In sogno il riconoscermi. Amico mio non importava.

 

SENZA TITOLO ALCUNO (2020)

Lunedì 18 maggio 2020

Ma cosa emerge dall’emergenza? Ognuno ha la sua Itaca e qualcuno più di una. Quel che aggalla dalla delicatezza dei fondali sono i fiori rossi della forza. Il cielo bianco e il volo opaco dei piccioni dal balcone come neve d’altre feste e compassioni. Dall’emergenza emerge la certezza che non nel pensiero risiede la verità.

Hanno solchi veri i noi di Tamen, hanno mani sporche, ognuna una radice che affonda a tratti in una nebbia indecifrabile. E tanta neve perfetta che circonda la riva dei sogni e che sazia, oppure che fiocca inviolata tra desideri allucinati, o diadema che s’insegue, si finge e non si trova. I noi sono gli altri come “…gli altri siamo noi continuamente…” una pluralità che funge da riserva (a tratti salvifica, a tratti abissale) anche per noi lettori con i versi-pietra, ora foglia, di Giancarlo Sissa tra le mani.

È Mantova inizialmente, a tratti solo Mantova, e al contempo è ogni altra città di provincia con “le sue pretese di civiltà ed eleganza”; basta sostituire i toponimi e qualche altro riferimento per ritrovare lo stesso afrore giudicante, l’asfissia dei margini dove ogni gesto, più o meno estremo, è un tentativo di (r-)esistenza, una qualche fattiva e talvolta distruttiva reazione alla complessità della vita, in nome di un senso e di una direzione che spesso esclude molti in nome dei pochi, che sacrifica la profondità dello scavo a favore delle apparenze. “…Noi che la storia / ci scriveva a margine della sua baldoria” sono alcuni versi che incontriamo nel primo testo di Tamen, dedicato all’amico Giancarlo Rebecchi, versi che circoscrivono a un tempo e a una geografia, ma soprattutto che pongono in rilievo il ruolo di chi sperimenta la miseria reale e quotidiana sulla propria pelle, di chi espone il fianco al fuoco di ogni esperienza: bellissima e disastrosa.

Oltre l’autenticità dei molteplici noi che attraversano tanto Mantova quanto altre città e latitudini, in cui ognuno può riconoscere qualcosa della propria storia o della storia di qualcuno, è il cortocircuito immaginifico che scuote e rianima il lettore a quell’incrocio spazio-temporale, tra ombra e ombra, dove si è esposti alla luce-lama della voce dei morti, dove “il sole è una poiana nella nebbia” e si è costretti a indagare oltre ogni pregressa certezza, alla ricerca di una visione audace, collaterale, che si espanda verso e oltre “l’oriente del pensiero” alla ricerca di qualche sconfinato e possibile rinverdimento dell’anima.

La musicalità dei primi libri in versi di Giancarlo Sissa lascia posto in questa ampia antologia a una prosa poetica tanto densa da potere essere definita sapienziale; una lingua (e una grammatica) che accendono visioni prismatiche, oltre ogni previsione o aspettativa: una risalita controcorrente dove il poeta cavalca distorsioni, inversioni di ruolo e di senso con il fine primo di accogliere ogni singola possibilità, ogni direzione percorribile del viaggio della vita.

La verità scende in campo come somma di mille possibili esperienze, alleata dello spirito consapevole della sua frammentarietà, perché “la verità è un anacoluto”, proprio come nelle mistiche di Gialal ad-Din Rumi, dove la verità implica la coralità di un gesto per ravvicinare i singoli frammenti dello specchio ma dove l’insieme terreno resta ancorato a una questione di prospettiva se non addirittura a un’illusione. La verità necessita di una parola che parta dal concreto: “se togli la parola mani, nessun’altra esiste” per spingersi oltre lo stesso argine del reale, perché la parola-acqua fluisce sempre nel letto del suo stesso limite, ma la pienezza del suo significato “il suo grido” spesso risiede laddove camminando non possiamo risalire.

In queste pagine siamo erba, foglia, filo, appartenenti all’umanità del prato e siamo chiamati a chiederci assieme al poeta “cosa lavora nel campo che in cielo tace”, privilegiando una tensione unificatrice e contraria all’illusione di un’esistenza a compartimenti, ma senza sconti, esponendoci al taglio che sventra il corpo, senza timore alcuno della ferita. La possibilità della luce è radicata nel bianco dell’osso, cioè nella stessa dolorosa fatica dello scavo. Allora schegge di sogno, di veglia, di allucinazione si mescolano al reale e danno vita a orizzonti multiformi, ombre che inseguono fantasmi che inseguono uomini che si fondono negli elementi che a loro volta si invertono, la vita sgorga da una parola ardita e stordita, in un processo colmo di immagini surreali e stranianti che disegnano altre pulsanti possibilità esistenziali.

Quante volte siamo stati morti in vita? Quante volte abbiamo sfidato la soglia, o abbiamo orficamente tentato di inseguire qualcuno in sogno o nel delirio di una veglia ferita? Riguardare le nostre relazioni e i nostri luoghi da altre prospettive, accudendo quell’io bambino nell’adolescenza che dura tutta la vita, per giungere dove ci è consentito vedere la morte di taluni all’apparenza in vita, e dove mantenere in qualche modo vivi i nostri morti perché “solo i vivi rinascono”. E solo l’amore attraverso la memoria può salvare le tracce della vita.

In questo viaggio plurale l’unica cosa che continua a fluire, mentre tutto inevitabilmente si trasforma e scompare, è proprio la poesia: Tuttavia la poesia, celebrazione della memoria, vivificazione di ieri, nell’oggi per il Domani, Così sia, l’amore, l’uomo e la vita (TamenAdmèn, t-Amen).

Giancarlo Sissa è nato a Mantova nel 1961. Vive a Bologna. Come poeta ha pubblicato nel 1997 Laureola (Book Editore), nel 1998 Prima della tac e altre poesie (Marcos y Marcos), nel 2002 Il mestiere dell’educatore (Book Editore),  nel 2004 Manuale d’insonnia (Aragno), nel 2008 Il bambino perfetto (Manni), nel 2015 Autoritratto (poesie 1990-2015)(italic/pequod) e Persona minore (qudulibri), nel 2020 Archivio del Padre (MC edizioni). E’ presente in diverse antologie, fra le più recenti: I volti delle parole (FondazioneTitoBalestra onlus, fotografie di Daniele Ferroni, prefazione di Sebastiano Vassalli, 2014), Sulla scia dei piovaschi – poeti italiani tra due millenni (Archinto, 2016),  Centrale di Transito (ceci n’est pas une anthologie) (Giulio Perrone Editore, 2016), Officine della Poesia 1. Bologna (Kurumuny Editore, 2018), Sospeso respiro – Poesia di pandemia (Moretti & Vitali, 2020) a cura di Gabrio Vitali, Distanze obliterate – Generazioni di poesie sulla rete (puntoacapo Editore, 2021). Dalla collaborazione con il fotografo Daniele Ferroni sono nati nel 2019 L’ultimo ballerino dell’aia con prefazione di Giampiero Neri (Edizioni Lumacagolosa) e nel 2020 Lentezza e silenzio e Il silenzio (Edizioni Pulcinoelefante). Del 2019 è la plaquette Il lupo (Babbomorto Editore), del 2022 è Frontiera (Babbomorto Editore, 2022). Le sue poesie sono tradotte in diverse lingue europeePer anni ha prestato opera di “diarista e narratore in scena” per il Teatro delle Ariette e nell’ambito del progetto teatrale “Rosaspina, il tempo del sogno” di Alessandra Gabriela Baldoni.

Giancarlo Sissa è membro della Redazione Independent Poetry e consigliere in carica.