Giuseppe Cavaleri
I Corpi Santi
(Interno Poesia,
2024)
A novembre andavamo al cimitero.
Lì, mio padre parlava con le tombe.
Parlava con il nonno e con un amico
morto il giorno di sant’Alfio a trent’anni.
Con il tempo si sono aggiunti altri.
Parenti che avevo visto aggrapparsi
alla vita come al corrimano delle scale,
di cui avevo ammirato le mani
ruvide che mi mostravano i cedri,
oppure che avevo visto al lavoro:
la fresatura scandita dalle bestemmie.
Bisogna crederci nelle parole
oppure non crederci per nulla
per pensare che arrivano ai morti,
superando la terra, la materia,
ignorando i resti, la decomposizione,
la carne divorata da umido e vermi.
Ma lasciate andare così al vento,
le sillabe sbattevano sulle pietre.
Forse da qui, a giorni alterni,
l’idea che si perdano nell’aria
o che si fissino come il marmo.
Il linguaggio sono i vivi in fiamme.
*
Forse siamo quello che non sappiamo:
le mani che non sanno dove andare,
i piedi che si fermano agli incroci.
Forse siamo le parole non dette:
il ragazzo che aspetta e si mangia
le unghie nei minuti dell’attesa,
oppure il silenzio che corre
nelle auto, che sale dalle radio.
Forse siamo fiumi che si perdono,
avanzando spaventosi nella valle.
Oppure siamo i polsi poggiati,
le labbra che cercano aria e si aprono,
i pensieri che non ci danno tregua,
l’ombra che ci cresce accanto sui muri.
Forse siamo la forra, lo strapiombo,
l’acqua che passa, disgrega, trascina,
il tronco piegato che non si spezza.
Ciò che si placa, ciò che si disperde,
ciò che ostinato persiste nei giorni.
Forse siamo la signora che appare,
il signore che spunta dal portone,
avvia il motorino, che svolta e muore.
Forse siamo sentieri, ricordi,
cellule che nascono e poi crepano
sotto le nuvole di una Storia
che non conserva memoria, riflesso
di un cielo che anche il finito contiene.
*
C’erano dei bambini. Correvano.
All’uscita dalla scuola il giardino
chiedeva una scelta: le scale, il rientro,
il pranzo semplice in casa dei nonni,
il silenzio violato dai Sayan in tv.
Oppure il cortile che svoltava,
si allargava tra betulle e foglie,
stendendo un tappeto nella terra:
nessuna pietà dei formicai uccisi.
Dove ci portano le radici?
Diceva una voce e sembrava il vento.
Portavano alla ringhiera, al confine
uno spiazzo, una centrifuga rossa.
Come si finisce dall’altra parte?
L’irraggiungibile aveva il sapore
della mensa, delle lenticchie,
dell’igienizzante svuotato nei bagni:
la polvere del gesso sulle mani,
gli occhiali spaccati per capriccio.
I ricordi piovono, si attaccano
e i luoghi fuggono, non gli credono.
Dovrebbero gli oggetti dell’infanzia
a una certa età essere bruciati.
Sarebbe dolce guardarli, poggiarli
sulla legnaia ad uno ad uno,
l’odore fresco della recisione
come un rituale di estremo saluto.
Ognuno terrebbe in sé una storia.
Quella volta delle ciliegie e del pane,
delle scarpe sul selciato e dei tuoni.
*
Quella volta del forno e della ghisa,
del vento che sbatteva in faccia.
Ma da bambini non esiste passato.
Si raccolgono i rami dalla terra
e si battono sulla cancellata:
non si bada alle ombre che ci inseguono,
alle impronte di sé che si lasciano,
alle scintille della molatura
sui corpi in continua trasformazione.
*
La Mareneve è la strada che collega la parte nordorientale dell’Etna con i paesi costieri. I catanesi la imboccano quando hanno bisogno di guardare le cose dall’alto e per ricordarsi di dove si trovano nel mondo.
Muoiono le nuvole che guardi,
vanno lontano e si sfanno
mentre rimane l’ombra allungata
di un sole sfibrato che si posa.
Crescere non è parola che esiste.
Esiste la lava, la pioggia, la morte,
l’alito dei vecchi che già l’annuncia;
noi quasi sembriamo cercarla
mentre saliamo per la provinciale,
tra le vallate dove il fuoco si fa pietra
e le urla muoiono nei crateri.
Qui veniamo con le moto,
con il fiato mozzato dalle curve
e l’aria fresca mandata dalle foglie,
l’ossigeno pulito come neve.
Mareneve e pensi a un salto,
un vuoto affilato tra vetta e acqua,
la nostra città di barocco e sangue
e sudore, Sant’Agata e le puttane
e i cortili, sale cemento passione,
una mistura di gloria e cassonetti.
Mareneve e vai alla vista dai rifugi,
il cercare, tra i tanti, il tuo palazzo,
pensando con il sorriso di chi perde:
è dove si nasce la misura del mondo
Nel 2011 in Polonia, un gruppo di archeologi ha trovato una fossa comune. Una ventina di persone: donne, bambini e un uomo. In base alle rilevazioni al carbonio, la tomba è stata datata tra il Tardo Neolitico e la prima età del bronzo.
Forse gli uomini stavano cacciando, stabilendo contatti con altri gruppi oppure erano fuggiti. Tornati, hanno disposto i corpi con cura: le madri con i figli, le sorelle con le sorelle, l’uomo con la donna senza figli. Con buona probabilità, il gruppo massacrato era uno degli ultimi indigeni prima che popolazioni da est venissero a soppiantarli, diffondendo nuove lingue e costumi.
Se tiri una linea dall’inglese fino all’avestico e al punjabi, passando da tutte le lingue romanze, la parola padre ha sempre una radice comune. Stessa cosa per la parola madre.
La parola sangue, come la parola violenza, ha invece preso diverse strade. O almeno così sembra che sia.
Non esistono significative ricerche in merito.
“I Corpi Santi” esplora il legame tra esperienza del singolo e processi collettivi. Istituiti a fine ’700 e annessi alla città di Milano dopo l’Unità d’Italia, i Corpi Santi riunivano la fascia agricola intorno a Milano. Inglobati dalla metropoli, oggi ne costituiscono i punti nevralgici e gli snodi verso le periferie. Partendo da questo spunto, l’esordio poetico di Giuseppe Cavaleri, pubblicato in quanto vincitrice del premio “Ritratti di Poesia. Si stampi”, edizione 2024, si snoda lungo un sentiero organico che vuole restituire voce e presenza alla polifonia di corpi esclusi ed emarginati dalle narrazioni ufficiali. Suddivisa in tre sezioni la raccolta si snoda lungo tre diverse unicità spaziali e temporali: dal coacervo di vite e incontri di Milano, passando per la Catania bruciata dai ricordi dell’infanzia, fino alle cave della Necropoli di Pantalica abitate sin dai tempi dell’Età del bronzo. Testimonianza mai consolatoria della nuda vita e rielaborazione memoriale si intrecciano così in distesi canti narrativi, portando alla luce la pluralità di storie all’interno di una Storia, che non è mai unica, monolitica, ma si forma sempre dall’incrocio tra micro e macro, tra avvenimenti epocali e percorsi individuali.
Prefazione: Sonia Gentili
Giuseppe Cavaleri è nato a Catania il 1994. Si è laureato in Filologia moderna presso l’Università degli studi di Catania. Diversi suoi componimenti sono apparsi in alcune riviste e blog online. Per il blog Alma Poesia cura la rubrica “Le contaminazioni di Alma”. Attualmente vive e lavora a Milano. I Corpi Santi è il suo esordio pubblicato in virtù della vittoria del “Premio Ritratti di Poesia. Si stampi 2024”.