Ilaria Palomba
Scisma
(Les Flâneurs,
2024)
Giorno 4
La vigilia del nome è lo stigma
tralascia il tuo nome
assali il tuo nome.
La caduta del nome nel marmo
dissolvi il tuo nome
sbrindella il tuo nome.
Sei un covo di spago
hai croci nel midollo.
Rinuncia al tuo nome
distruggi il tuo nome.
Non esiste donna né uomo
persona è anelito nudo.
Rinnega il tuo nome
massacra il tuo nome.
Accontentati della crepa
nascondi il tuo nome
l’assalto alle ossa.
***
Giorno 7
Quattro piani non si
perdonano neanche
a un figlio. Sezione aurea
studiata per non risalire
mai nel mondo dei vivi.
Maledetto fu il giorno del rimpianto
farsi sanguinare il capo
nella scrittura nell’invidia
erigersi un monumento
e distruggerlo – fievole
ho ascoltato le sue voci
le ho viste arrancare sui pioppi –
leggevo gli altri dove in me
lei mancava. Mancava.
Non sapremo mai di questo svanire
non sapremo l’implacabile morte
il crollo dell’embrice sulla lingua
in te il padre perdeva e il reale
sbrindellava le voci – tutto il corpo –
la tua forza si estingueva nel volo.
***
Giorno 10
L’amore era il muro
crepaccio infernale
cui votammo le ore
o votammo gli organi
sia amore sepolcro
visione del salto.
Tu dov’eri dov’eri
avvitavi nodi
entravi in silenzio
nella sparizione
abbandonarmi in ospedale
abbandonarmi nelle frane
nella fragilità nello scisma
dirmi non voglio vederti
non posso mi fa male
la vita smembrata
un corpo ammalato
saperti morta in vita
assumere la colpa
preferisco mentire
non sei mai esistita.
***
Giorno 11
Le infermiere aprono la finestra
il mattino trabocca di lacrime
violaceo azzurrato l’albore tuona –
Schubert copre la nudità dei corpi
avvizziti gremiti di piaghe.
Al mattino il Colosseo Quadrato
sporge nel tramestio di nubi.
Al mattino penso al mio corpo
alla fine del sogno
alla fine dei giochi
un corpo disabitato – l’anima
anela prega piange –
tentativo di uscirne.
Devi restare, creatura infelice,
nella bolgia della mente
nella frattura del mondo
del tuo mondo
nell’avversione al corpo
al nulla caduco
al nulla vacuo
all’immobilità
alla paralisi.
***
Giorno 13
Sono nell’altrimenti
midollo squartato
vertebra esplosa.
Né i suicidi né
i morti metteranno
mai piede qui.
Il corridoio con i vassoi
pieni di pillole e siringhe
il rumore dei vassoi.
Il corridoio mi guarda
spietato e io immobile.
Poi la sesta via (se resisti
al presente e non gridi).
Tu dove sei?
***
Giorno 19
Voglio mentire sulla luce
ho ancora lo sguardo.
Mentirvi per sempre
ricordate sono nebbia
sono assente – non ricordate
– dimenticate il mio volto
riportatelo intero.
La resa mi ha sfigurata
sono spaccata dal sole
oscurità di questa stanza.
Vesti accatastate
nella parete voci gravi
smembramento.
Fate croci sul mio volto.
***
Giorno 24
Ho provato a pregare ma non ne sono più
capace. Preghiere siano le mie parole.
A un attimo di gioia segue un lungo
smarrimento. Non potrò più essere
quella di prima. Chi potrà amarmi?
Senza amore si vive morti.
Ho chiuso con l’inferno.
Forze cieche si sono servite di me
per consumarmi, restituirmi indifesa.
Devo ricominciare da zero.
Imparare tutto daccapo,
restare sempre indietro
mentre vi guardo voltarvi.
***
Giorno 26
Qui è la ghiera del persecutore interno,
non hai rivali fuori da te stessa.
L’uomo illuminato dal demonio
parla la lingua delle bestie:
Qui si smarrisce la coscienza.
Qui si aprono i multipli.
Vuoi vivere o morire?
Rinuncia al tuo nome, o la vita o il tuo nome.
Guarda, guardalo. Anche lui è qui.
Sono tutti qui. Aspettano.
Siamo qui per pulire.
Allontanare l’idea della morte, del dolore, creare al loro posto altre forme simboliche che rimandino, il più possibile, la verifica e la prova: gli ultimi decenni non sono stati altro, probabilmente, che un fenomeno collettivo di rimozione e generazione totemica. L’esperienza del dolore, che dovrebbe portare a un’idea consapevole della finitezza e della precarietà umane, finisce col perdere il corollario della socializzazione e, quindi, della condivisione della frattura. Ciò che rendeva il lutto più sopportabile era la partecipazione della comunità, l’elaborazione collettiva. Il dolore nel nostro tempo diventa, invece, qualcosa che allontana dagli altri, che porta fuori della comunità e dalla comunione (per quanto fragili o apparenti).
Probabilmente, Ilaria Palomba parla di Scisma anche in questo senso, descrivendo minuziosamente un dolore che non può essere condiviso perché non riconoscibile nel codice e nel patto fondativi della comunità, quando scarnifica un corpo che è suo, che non le è estraneo, ma che sembra esserlo diventato – o che potrebbe diventarlo – per la necessaria rimozione.
Ripercorrendo i giorni della degenza, con la crudeltà che solo si può riservare a sé stessi, duplica e moltiplica il dolore che gli altri vorrebbero, per sé stessi, relativizzato o cancellato.
Ne L’esperienza del dolore, Salvatore Natoli ci parla della “metafisica del tragico” (il riferimento è alla cultura greca, ma il paradigma è perfetto anche per la nostra analisi) dicendoci che “Nel corso della vita di ognuno improvvisamente insorge il contrasto tra il prima e il dopo e l’insorgere è puramente casuale. Nel momento in cui si manifesta si diventa consapevoli che non si può sfuggire.”
In questo solco, “…la percezione tragica dell’esistenza, la crudeltà della vita inseparabile dalla morte.” sostanziano un dolore che si forma tra i due poli necessari della crudeltà e dell’innocenza, che è “nella natura stessa, nel suo eterno ciclo di nascita – morte – nuova nascita. Nella dimensione tragica l’uomo cerca di allontanare da sé il male, il dolore e, nel vano tentativo di opporsi, rasenta a volte la follia.”
La struttura del poema di Ilaria è scandita dai giorni dell’ospedalizzazione, da una articolazione che è un non luogo esattamente come gli alberghi e le stazioni, in cui però si compie il prodigioso recupero -o riemersione alla vita, o passaggio ad una nuova forma di vita- che segue una circostanza essenziale, l’uscirne viva per miracolo. È per questo, probabilmente, che Scisma è anche un poema della luce – o sulla luce – perché il dolore di cui parla, proprio perché non può essere (e non vuole essere condiviso) impone di avere, almeno in parte, il coraggio di affrontare lo stesso percorso di rinascita.
Siamo nella profondità dell’illimitato e del lontano, alla sventura della dismisura -per dirla con Blanchot in Lo spazio letterario – a un naufragio che è anche un sollievo finale.
Ancora Natoli ci dice: “Cerchiamo di identificare l’esperienza del dolore. Questa è in prima istanza esperienza della lacerazione. Più o meno è sempre stato così. I modi per sanare questa lacerazione sono, poi, strategie di diversa natura. Possono essere approcci problematici, possono essere teorie, ma tutto questo insorge a partire dall’esperienza della lacerazione, che ha due aspetti, due facce che però entrano in circolo tra di loro. Una faccia è l’oggettività del danno, l’altra è la dimensione del senso.”
Scisma è, quindi, quasi una resurrezione della carne che anticipa, temporalmente, un giudizio universale che si immagina aver avuto già luogo, nella distrazione deliberata di quanti avrebbero potuto essere risvegliati e, colpevolmente, hanno deciso di voltarsi da un’altra parte o non guardare affatto.
Ilaria Palomba. Scrittrice, saggista e poetessa pugliese. Tra le sue opere Fatti male (Gaffi, 2012: tradotto in tedesco), Homo homini virus (Meridiano Zero, 2015: premio Carver), Disturbi di luminosità (Gaffi, 2018), Brama (Giulio Perrone Editore, 2020), Città metafisiche (Ensemble, 2020), Microcosmi (Ensemble, 2022). Alcuni suoi racconti sono tradotti in inglese, francese e tedesco.
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