La Dote dei Poeti
nella Foto da sinistra: Michele Donati e Luigi Sebastiani
LUIGI SEBASTIANI, DIRE L’OLTRE DELLA PAROLA
A cura di Bianca Sorrentino
Come una grande madre, la poesia agisce da eterno richiamo, sfida la vita e ne esige il canto. Gli atti della disperanza (Giulio Perrone editore, 2015) di Luigi Sebastiani inscenano un dramma in cui il verso oltrepassa il confine, varca la frontiera del libretto musicale. È un tentativo, il suo, di imparare la misura, di dire della distanza che avvicina, di amministrare il naufragio attraverso il sommo esercizio della disciplina.
La tua ricerca, che hai esposto con ammirevole padronanza nel corso di un incontro al Festival Tres Dotes, indaga il rapporto tra poesia e musica dal Novecento a oggi, nel solco di un secolo multiforme, cangiante, irriducibile a una sola definizione. La musica ha la grazia di arrivare laddove la parola non riesce a giungere, allude, suscita emozioni.
Il rapporto tra musica e poesia è molteplice e di difficile esplorazione, sia per quanto riguarda la parola-strumento, che si fa silenzio e si fa suono e tenta di raggiungere (è forse questo il fine della poesia?) l’oltre della parola. Sia per quanto riguarda il tentativo della poesia di emulare, nella sua stessa forma, le forme musicali più ardite. Perché in fondo, è bene ricordarlo soprattutto oggi, la poesia è prima di tutto forma, struttura. Nel corso dell’incontro ho parlato di tre autori del nostro ’900, i cui percorsi io ritengo particolarmente interessanti. Il Saba di Preludio e fughe, Elsa Morante con il suo “melodramma post-romantico” La serata a Colono, e il Caproni dell’ultima produzione, con uno sguardo particolare al Franco Cacciatore. Brevemente, se Saba concepisce un suo piccolo clavicembalo ben temperato– il riferimento bachiano a me pare evidente – in cui la rincorsa delle voci musicali è resa tramite mezzi grafici e stilistici (il corsivo, l’enjambement), che rompono la verticalità della poesia restituendo per contro l’orizzontalità della forma fugata; è interessante invece entrare nei gangli dell’opera di Elsa Morante, nelle sue didascalie (sempre così ipertrofiche e tornite, come ipertrofica e tornita era la sua lingua di narratrice e di poeta), che sembrano aprirci davanti una vera partitura, dotata di segni agogici e dinamici, sempre dettagliatissimi. Elsa Morante era una conoscitrice raffinatissima (si pensi che Pasolini la consultò in più di un’occasione per le colonne sonore dei suoi film), e affondava le sue radici di ascoltatrice nel grande repertorio classico e romantico. Si potrebbe leggere il lungo monologo di Edipo come una grande scena da melodramma romantico, dotata di recitativo, cantabile, tempo di mezzo (con i pertichini di Antigone e gli interventi del coro), e cabaletta finale. Il verso stesso sembrerebbe supportare una simile lettura. D’altronde, se il cantabile era il movimento più lento e spianato della scena, la cabaletta per tradizione era un movimento veloce. E si può scorgere, leggendo, una progressione simile nella versificazione, che da eccedente e iper-dilatata si fa rapida, spezzata e quasi guizzante. Caproni tenta anche lui la strada del melodramma, ma in modo diverso. Nel suo Franco Cacciatore, se da un lato si fa librettista (è lecito vedere in Caproni il frutto maturo e terminale di questa genia?), dall’altro sembra voler recuperare col verso la musicalità di Weber e del suo Freischütz.
Mentre ti ascolto, mi vengono in mente altri esempi di personaggi che siamo soliti ricondurre esclusivamente al nostro patrimonio letterario, ma che molto hanno avuto a che fare con la musica. Penso a Joyce, che avrebbe voluto diventare un cantante, e ad Amelia Rosselli, sublime musicista che, quando leggeva le sue poesie, solfeggiava…
Che meraviglia sentire i poeti che leggono se stessi, se penso a Amelia Rosselli quasi mi commuovo! A parte questo, l’Italia ha una grande tradizione poetica e una grande tradizione musicale: quello che solitamente si dice, “l’Italia è la culla del melodramma”, suona un po’ retorico e campanilistico, ma ha un suo fondo di verità e penso che un segno nel nostro DNA artistico e letterario lo abbia lasciato. Se la poesia viene dal canto degli aedi e poi dei trovatori, per noi italiani viene anche dai libretti e dalle opere. E non occorre arrivare a due cime assolute come Da Ponte o Busenello per realizzare che tesoro ci abbiano lasciato, in fatto di versi, questi poeti ingiustamente ritenuti di serie B. Tuttavia, e questa è la nemesi, questi poeti/librettisti rappresentano tuttora parte di quella tradizione poetica con cui l’attuale poesia è chiamata a rapportarsi, in maniera più o meno cosciente.
Anche Maria Virginia Fabroni, che celebriamo in occasione del Festival, aveva compiuto studi musicali a Pisa e poi si era dedicata alla letteratura una volta tornata a Tredozio. Tu sei romagnolo, ma hai vissuto e studiato lontano da casa, dal tuo elemento, dal tuo luogo di nascita: nella tua poesia è presente questo forte sentire riguardo alle tue radici?
È molto forte, ma non si tratta di un luogo fisico. È una geografia privata, intima: è il corpo stesso di mia madre. Forse una sorta di geografia prenatale. Questa è una cosa su cui mi arrovello e su cui gira gran parte dei miei versi. Si parlava dell’Edipo a Colono, dove il cerchio si compie, il principio è uguale alla fine: quel punto è il punto del mistero, il luogo dell’origine, un luogo che non ha luogo, ma che indiscutibilmente c’è. È lì che non riesco a far altro che volgermi.
In onore di questo Festival, nel cui nome “Tres Dotes” si compie il cerchio della leggenda, ti chiedo quali devono essere le tre doti di cui un poeta non può essere privo.
Direi l’onestà, nel senso in cui l’intendeva Saba. La disciplina, perché credo sia necessaria una disciplina del verso, come in tutte le arti. E poi anche una certa forma di intransigenza, di non venire a patti.