Riccardo Olivieri
Restare vivi
prefazione Claudio Damiani
(Passigli,
2023)
Caro terrorista,
Non leggerò il tuo tempo scritto cubitale
sul giornale. La Vanguardia
che riposi lì, col suo terrore.
Guarda invece che così Santa Cristina
questo cielo dal prato del mio amico Juan
– questa mattina.
Guarda – se ti è mai successo
il rotondo della baia San Feliu alle nove di mattina,
quando vecchi e bambini toccano
la prima acqua.
Ma t’è mai successo? L’hai
mai avuto qualcuno a mostrarti
la luce del mare catalano?
Hai ricordi di quand’eri bambino?
Guarda – te lo dico accecato dal piano assoluto della baia –
coi discorsi rinascenti dei vecchi e delle madri,
le parole mattinali dei viventi,
questo delicato immortale brulichio
di fronte al mare:
Respira, ricorda di come tua madre ti teneva la mano.
***
La tua inadeguatezza
passa per il corpo,
si vede con la postura
paralizzata terrorizzata
che tieni nei mattini
terribili infestati
questi giorni.
***
RWM & C.
Per Amal Hussain, 7 anni
(Copertina di Avvenire del 3 novembre 2018)
Che cosa sta succedendo in Yemen
mi chiedo mentre vado a fare la spesa e leggo
anche con armi nostre sul giornale dei preti (incredibile, è rimasto il più vero)
e allora dalla tua foto, Amal che ci ricordi di vivere,
penso a ieri a quella immagine alla tele. Ma come fa
un mio ministro – sorridente in Qatar –
a imbracciare da una foto il mitra?
***
PER TUTTI I FIGLI DI QUESTA CUPA EPOCA
vedendoli manifestare
Ora, piccoli miei
Non abbiate paura,
ché la luce
ha penetrato l’arco
delle vostre frecce.
***
Che il mio manichino resista
lo chiedo da tempo, ma non mi basta.
Quando il mio manichino pronuncia una parola, quella è mia
non sua. Lo abito ma non so se sono lui.
Ha preso forme strane – ultimamente – il mio manichino,
colori di vecchio, argentei e più vicini alla morte.
Ma in fondo cos’è la morte di un manichino? (Cos’è?) Io
non sarò con lui quando muore.
***
SAN REMO
E così è questo che volevi,
e l’hai avuto:
il teschio planetario del ricordo
specchiato un quindicennio dopo
da un fine settimana quasi a caso;
Pigato giù nel cuore a fondo
da un anfratto poco in vista,
e un gesto troppo aereo per mimarlo altrove,
soltanto qui, davanti a questo altare d’acqua
può riuscire.
La poesia è arma
Se Restare vivi – questo il titolo della raccolta di Riccardo Olivieri edita da Passigli – è l’obiettivo che ci si prefigge, il presupposto è che il mondo sia percorso da una tensione verso la morte. Si andranno qui a sondare alcuni punti del libro che possono fungere da chiave di lettura, prima, però, è opportuno notare che l’insieme si presenta come un volume suddiviso in cinque sezioni (Solo gli alberi e i bambini; Anche il Capitale; La casa rossa; Ritorni e Esempi): in due di esse – la prima e la terza – sono anche collocate sottosezioni, rispettivamente Ucraina e Il mio manichino. Su quest’ultima – nodo centrale della raccolta – si tornerà più avanti. Olivieri non adotta schemi metrici classici, in generale il suo verso libero, sintatticamente regolare e tendente a una certa prosaicità, risponde a un’esigenza dialogica con il lettore, nei confronti del quale l’autore si pone su un piano pari, di condivisione. Questo habitus formale si traduce in un senso poetico che ha ben riassunto Giuseppe Conte parlando di «pathos e chiarezza» come qualità principi dell’opera di Olivieri: restare vivi in “questa cattedrale / fondata su Paura” è possibile mettendo a comune denominatore quei caposaldi della vita individuale su cui anche l’Altro da noi può trovare un punto di contatto. Il rapporto con il figlio e con la terra natale, in questo caso Sanremo, a calare nella realtà la dualità del generare e dell’essere generati, e poi le amicizie, le dinamiche lavorative che opprimono sempre più gli esseri umani, gli accadimenti storici che rappresentano un patrimonio di esperienze comune: sono tutti temi affrontati nelle poesie, da cui si vogliono trarre in questa nota alcuni esempi specifici.
Il primo è un motivo ricorrente in due testi della sezione iniziale, “Lettera catalana” e “Che la calma”: l’uno fa riferimento all’attentato del 17 agosto 2017 sulle ramblas di Barcellona, l’altro è da ambientare nel contesto della guerra russo-ucraina. Il filo conduttore – palese nell’invocazione dei versi finali che si ripetono uguali in entrambi – è quello che battezzeremo “l’innocenza prima della violenza”. Non mancherà certo chi attende solo di travisare il senso che vuole veicolare il poeta, perché qui l’autore sembra tendere la mano allo jihadista e a Putin, simboli mediatici di orrore. Olivieri chiede loro “Hai ricordi di quand’eri bambino?” e rivolge un invito, “Respira, ricorda di come tua madre ti teneva la mano”. Una semplicità che suonerebbe fastidiosa quasi per qualsiasi verso in tale contesto produce un effetto radicale, e davvero non si può dimenticare la poesia di Wislawa Szymborska, “La prima fotografia di Hitler”, dove “Adolfino” a un anno di età è “un pupo” che somiglia “ai bambini di tutti gli album di famiglia”. Non è ancora l’icona del Novecento più oscuro, né quella foto, seppure osservata dai posteri, potrà mai esserlo. L’infanzia dei dittatori sanguinari, così come quella del terrorista, si posiziona quindi sulla soglia inestricabile del paradosso etico per chi etichetta tutto con categorie prestabilite, è interrogativo scomodo. L’innocenza di base di ciascun individuo è sostanza che contiene in se anche il suo opposto, la capacità della violenza, e a questa ambivalenza dobbiamo rivolgerci in primo luogo per non perdere la nostra umanità, restare vivi, e per tentare di afferrare la complessità del reale. Lo sapeva ad esempio anche Antonio Porta quando pregò di lasciare riposare in pace i soldati nazisti sepolti sul Passo della Futa. Olivieri, è chiaro, non assolve lo jihadista e Putin, ma li colloca nel novero dei nostri simili, e così facendo ci avvicina a loro: ci provoca spavento e confusione sapere che c’è in noi un coacervo di pietas e genocidio, ma è questo l’abisso in cui siamo chiamati a guardare. Se volessimo uccidere Vladimir bambino, se soffocassimo Adolf nella culla, se avvelenassimo l’infante che diventerà terrorista, morirebbe anche la nostra umanità.
Va detto che la critica di Olivieri alla società contemporanea non è vaga ma precisamente indirizzata, anche sulla scorta di una personale esperienza lavorativa che lo ha portato a occuparsi di marketing e quindi lo posiziona nella schiera degli autori “centauri”, per dirla con Primo Levi. Il bersaglio è esplicitato nella sezione “Anche il Capitale”, la più politica: si tratta della “paura”, di cui il meccanismo di produzione è “maestro”. Il suo alfiere è “la Rete”, con “la gente” che popola questa democrazia fittizia “ridotta a tifoseria”, mentre le strade in cui ci perdiamo sono grigie e vi vediamo sfilare un rider che “ha una scatola gialla e soffre pedalando”, mentre i cortei operai sembrano un fastidioso anacronismo all’impiegata “stizzita”. Ciascuno per se, isolato nella “somma delle nebbie”, restare vivi è difficile al cospetto di una “Finanza” che invece “allegramente sopra-vive” e porta alla morte, e noi siamo “troppo impegnati, per anni / – credendola cosa giusta – / a girare l’inutile / ruota del criceto”. I cellulari sono le “nuove manette”, accettate di buon grado da “uomini e donne-figurina”. Quest’ultima immagine richiama al “manichino” che dà il titolo alla relativa sottosezione, una sequenza di sette poesie in cui il soggetto si misura con una presenza sovrapponibile all’Io ma che il Sé riconosce con una sottile inquietudine come alterità. Il manichino ha la stessa moglie del soggetto, ascolta il telegiornale come lui, pronuncia le sue parole; ma non è lui. Quella creata da Olivieri è una figura enigmatica, quanto mai simile a un alter ego virtuale, che spesso viene confuso con la nostra identità ma rimane ineludibilmente Altro sebbene presenti il medesimo nome e le medesime sembianze. Ma il manichino è anche proiezione della parte più superficiale della nostra interiorità, l’involucro che senza spirito risulta privo di vita autonoma, un corpo esanime in senso letterale, con cui ci si trova d’accordo su una cosa, “toccare l’erba, e anche / la terra”, ed infatti non può sognare, perché gli sono preclusi i territori più misteriosi dell’inconscio. Leggendo “Il mio manichino” sembra di imbattersi nell’avatar a cui rischiamo di cedere il controllo della nostra esistenza quando, invece di essere nel mondo e nella vita, ci recludiamo in una vetrina, nella morte, finendo per guardarci come alieni a noi stessi.
Una deriva tra le tante che si rischiano nella società della nevrosi e della guerra. E allora qual è la funzione della poesia? Forse essere “pace”, come sembrerebbe di intuire dai tanti testi dal registro luminoso e rasserenante contrapposto al buio della Storia? Tutt’altro, avverte Olivieri in “Dialogo sulla poesia”, manifesto programmatico del suo lavoro in versi: “No, la poesia è arma, / inaudito taglio al male intorno, / fendente, condotta, varco d’aria”.
Riccardo Olivieri, nato a Sanremo nel 1969, dopo l’università ha lavorato tre anni in Piemonte, poi ha vissuto in Lussemburgo e in America Latina. È rientrato a Torino nel 2000, dove vive e lavora come ricercatore di marketing. Nel 2001 ha vinto il Premio “Dario Bellezza” e ha pubblicato la raccolta di poesie Diario di Konokke, segnalata al Premio Montale 2002. Con Passigli Poesia ha pubblicato le raccolte Il risultato d’azienda (prefazione di Stefano Verdino, 2006), Difesa dei sensibili (prefazione di Davide Rondoni e nota di Massimo Morasso, 2012) e A quale ritmo, per quale regnante (presentazione di Giuseppe Conte, 2017 – Premio “Cesare Pavese”). Tra gli altri suoi riconoscimenti, il Premio “Lerici Pea” per l’inedito nel 2013.